Abelardo ED Eloisa Epistolario riassunto PDF

Title Abelardo ED Eloisa Epistolario riassunto
Author LeoAlbus R.
Course Letteratura latina medievale
Institution Università degli Studi di Milano
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ABELARDO ED ELOISA Epistolario ➡ Unica traccia di una conoscenza dell’Epistolario prima della seconda metà del XIII secolo: William Godell, cronista di origine inglese vissuto nella diocesi di Sens che, forse un decennio dopo la morte di Eloisa, raccogliendo tradizioni cluniacensi e paraclitensi, da una parte restituisce un’immagine di Abelardo cifrata sul pentimento e l’ortodossia, dall’altra incentra il rapporto con Eloisa sulla fondazione e conduzione del Paracleto. La notizia viene ripresa e integrata in alcuni cronisti in parte dipendenti da Godell, e negli anni venti del XIII secolo, quando compare nell’anonimo Chronicon Turonense, l’immagine di devozione e fedeltà è giù velata dei tratti di una romantic legend. ➡ La dimensione amorosa e passionale viene ad occupare la scena nella seconda metà del Duecento, quando compare l’indubitabile testimonianza storica dell’Epistolario. È in questo periodo, infatti, che lettere sono a noi testimoniate nelle più antiche attestazioni manoscritte. Questo ci sposta anche di scenario, dal Paracleto, dove le lettere ebbero forse origine o prima conservazione, a Parigi, luogo che tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, svolge un ruolo importante nella loro diffusione. Qui compare, infatti, per noi il più completo dei codici dell’Epistolario, il ms. Troyes 802; ma qui soprattuto si situa colui che è forse il vero creatore della leggenda di Abelardo ed Eloisa, Jean de Meun, che tra gli anni Settanta e Novanta del XIII secolo, traduce in francese parte dell’Epistolario, e soprattuto, rifonde nel capitolo antimatrimoniale del Roman de la Rose la vicenda dei due amanti e in particolare il discorso con cui, nell’Historia calamitatum, Eloisa cerca di opporsi al matrimonio con Abelardo. L’interesse di Jean de Meun per l’Epistolario è evidente nell’omissione dell’Epistola VIII, che contiene la Regola scritta da Abelardo per il monastero del Paracleto e che non viene tradotta, segnalando il ridotto interesse per la parte monastica dell’insieme, ma, al contrario, per la parte più autobiografica e sentimentale. ➡ Tra Trecento e Quattrocento l’Epistolario, anche nell’originaria veste latina, gode di una certa fortuna, in linea con il diffuso gusto per il genere epistolare; suoi manoscritti sono presenti in biblioteche dell’epoca. ➡ Tra Quattrocento e Cinquecento l’Eloisa, maestra d’amore del Roman, piuttosto che la protagonista reale dell’Epistolario, ritorna in due testimonianze significative: 1) Anonimo Art d’Amour dove le norme di un amore non matrimoniale, derivate direttamente dal De Amore di Andrea Cappellano, divengono gli insegnamenti che Eloisa impartisce al un discepolo; si tratta di un’Eloisa che appare calata nel ruolo di donna saggia, colta, irreprensibile. 2) Traduzione e commento del Roman de la Rose composti intorno al 1483 da Jehan Molinet: Eloisa è una donna colta ed intelligente ma diviene addirittura immagine simbolica dell’anima peccatrice presa da concupiscenza e dal desiderio di soddisfare le sue voluttà. ➡ La vera esplosione della loro fortuna moderna si ha nel Seicento in seguito alle opere di riscrittura delle vicende e delle lettere di vari letterati, diffondendone così la conoscenza in un ampio pubblico di lettori non eruditi. Fino al XIX secolo sul racconto storicamente fondato, finisce per prevalere la vita romanzata degli eroi, mentre la versione originaria delle lettere viene soppiantata da traduzioni e rimaneggiamenti che sono sostanziale reinvenzione secondo i gusti del tempo. La vicenda si trasforma così via via in un’avventura di stile galante, in una storia malinconica nei toni sentimentali del genere larmoyant. ➡ L’apogeo viene raggiunto durante il periodo romantico, quando Eloisa, in particolare, diventa oggetto di una vera e propria venerazione, che in lei esalta l’incarnazione dell’amour-passion, assoluto e irrefrenabile, della dedizione totale, dell’amante sublime, o viceversa, quella del sentimento religioso capace di piegare a sé la passione o di sconfiggerla. Il dibattito sull’autenticità ha prodotto, nel corso dei decenni, un ampio ventaglio di ipotesi: l’Epistolario è un insieme di lettere effettivamente scambiate dai due personaggi storici cui è attribuito. Sembra attualmente prevalere la posizione favorevole all’autenticità, che appare fondarsi soprattutto su due elementi: 1) assoluta fragilità dei rilievi opposti all’autenticità, una volta che si accetti l’idea che l’Epistolario è un’opera profondamente letteraria e di grande complessità linguistica e strutturale 2) difficoltà di dare della falsificazione un’interpretazione commisurata a’interezza dello scritto e, soprattutto, trovarle una collocazione storica che renda plausibile l’acquisizione da parte del falsario

dell’impressionante familiarità con l’opera di Abelardo necessaria per realizzare l’Epistolario. l’Epistolario rappresenta quindi un insieme di lettere reali effettivamente risalenti ad Abelardo ed Eloisa, composte dopo il 1131, durante l’ultimo periodo di soggiorno di Abelardo a Saint-Gildas e forse in parte nei primi anni dopo il suo ritorno a Parigi. Esse sarebbero state conservate probabilmente al Paracleto e poi raccolte e ricopiate nella successione in cui sono costantemente attestate nella tradizione manoscritta. Questa operazione potrebbe essere stata compiuta da terzi, dopo la morte dei due autori. Ma profondi rapporti appaiono legare questa corrispondenza con le altre opere che Abelardo, tra la fine degli anni Venti e il 1135/37, scrisse per la comunità paraclitense, e che con la corrispondenza si dimostrano parti di un’unica “impresa”. Questo suggerisce che la raccolta di lettere sia stata preparata ed ordinata per conto dell’abbazia del Paracleto, così da costituire un dossier organico, di carattere monastico, che mira ad illuminare gli inizi biografici e istituzionali del Paracleto. Da questo si potrebbe supporre che l’Epistolario non sia stato concepito per rimanere chiuso nella sfera privata; la raffinata scrittura, soprattuto nel caso di Eloisa, in questo senso, deriverebbe da un’incontenibile manifestazione della sua altrimenti frustata vocazione letteraria. La richiesta, da lei formulata ad Abelardo nella sua prima lettera, di una consolatio che si ponga nella grande tradizione patristica di scritti spirituali per donne, i riferimenti espliciti e impliciti che ella fa a modelli epistolografici autorevoli, prima fra tutti Seneca, rendono evidente come ella non si stia muovendo all’interno di una logica privata, ma stia perseguendo un ben preciso e ambizioso progetto letterario: creare, attraverso il dialogo, un racconto autobiograficospirituale che sia uno spazio di creatività letteraria sia per lei, che per lui, frustato dalla disastrosa esperienza di abate. I) Prima epistola: il primo tassello del corpus dell’Epistolario è la cosiddetta Historia calamitatum mearum “Storia delle mie disgrazie”, scritta da Abelardo qualche anno dopo la rifondazione del Paracleto (1130/31) e prima del suo definitivo ritorno a Parigi, è il racconto delle fasi e degli eventi più importanti della sua carriera, dagli inizi fino alle difficoltà e alla disperazione che caratterizzano gli anni più recenti. L’Historia è anche uno dei testi più ricchi di informazioni sugli eventi della vita di Abelardo e sull’ambiente in cui egli operò, tant’è che è spesso finita a far ombra alle ragioni letterarie dello scritto. L’opera è stata talora avvicinata alla tradizione e tipologia delle confessioni, dalla quale sembra distinguersi, almeno rispetto al modello agostiniano, per un elemento strutturale: l’Historia è costruita come una sorta di dialogo con un interlocutore che, contrariamente alle Confessiones, non è Dio, ma un anonimo amico che dovrebbe trovare consolazione confrontando le sue sventure con quelle di Abelardo. Questo amico, per la critica, è una creazione fittizia cui sono affidate alcune funzioni strutturali, a partire dalla possibilità stessa di costituire la situazione epistolare. Nel configurare gli episodi, nel costruire il racconto, Abelardo opera scelte selettive; a guidarle è il bisogno di riconoscere e dare un senso alla propria vicenda, con uno scopo prima di tutto giustificativo verso l’esterno, nell’intento, cioè, di difendere di fronte agli altri l’intera parabola della sua vita, discussa e discutibile. L’Historia si struttura lungo due diversi e successivi archi narrativi: l’uno abbraccia le fasi della formazione e affermazione di Abelardo, l’altro gli eventi degli anni successivi alla monacazione fino ai giorni presenti. Gli eventi della prima parte sono risolti in una vicenda di peccato e conseguente punizione divina, che è in realtà intervento salvifico e purificatore. I peccati che egli si ascrive sono superbia intellettuale e lussuria. Queste prime vicende si svelano come una sorta di rappresentazione drammatizzata dell’ideale del filosofo-teologo in cui i protagonisti del racconto sono chiamati ad impersonare comportamenti esemplari in negativo e positivo; a fondamento di questo ideale è una concezione della filosofia e della teologia come ricerca razionale continua. In questa vicenda di perdizione e salvazione Eloisa ha un ruolo subordinato: nella storia d’amore è elemento passivo, è scelta e sedotta, ed opera meramente come donna, tradizionale fonte di rovina per l’uomo. Ma a lei viene anche affidata la razionalizzazione fondamentale dell’incompatibilità tra vocazione filosofica e matrimonio (carnalità), e la presa di coscienza dell’effetto distruttivo che questo provocherebbe in Abelardo. Il secondo episodio tragico, la condanna di Soissons, è il punto di svolta della narrazione, cerniera verso il secondo arco narrativo dell’Historia; esso è rappresentato come una vicenda non compresa e tradita. Il secondo arco narrativo diviene lo sforzo continuo di Abelardo di ricostruire un’identità, di ritrovare un luogo e un ruolo. In questa ricerca il termine di riferimento primario è rappresentato dal Paracleto, luogo ideale e consolatorio. Molto

più nettamente che nella prima parte dell’Historia, la narrazione è ora guidata da volontà di giustificazione, di rivendicazione di innocenza in comportamenti critici. In questo si accentua la tendenza di Abelardo a proiettarsi in figure modello, che è anche il modo per giustificare razionalmente le sue sofferenze e riuscire ad accettarle. In questo diventa chiara anche la funzione dell’amico destinatario della lettera, al quale Abelardo si rivolge in chiusura, riproponendosi a sua volta come exemplum di sofferenza: egli si svela come una sorta di controfigura dialogante di Abelardo stesso. II) Seconda epistola: prima lettera di Eloisa, si congiunge esplicitamente alla narrazione dell’Historia, aprendo così quella concatenazione tipica dell’Epistolario. In apertura Eloisa ricostruisce le circostanze casuale grazie alle quali sarebbe venuta a conoscenza dello scritto di Abelardo > artificio letterario funzionale a sottolineare la continuità che si vuole costruire tra i due scritti; questo spiega anche la presenza del diffuso riassunto dell’Historia che segue e che rende possibile la comprensione della lettera anche a chi la leggesse senza disporre dell’Historia. Nella volontà di aprire un dialogo con l’Historia ed Abelardo, Eloisa sceglie il tema dell’estranea alterità di Saint-Gildas, della sua oscura e minacciosa inutilità, cui appone la luce consolatoria del Paracleto, che ripropone alla disperazione di Abelardo come spazio ancora praticabile di realizzazione, di operosità. Poste queste premesse, Eloisa vi incapsula uno spazio proprio: con rapida transizione ella abbandona la comunità e il “noi” collettivo con cui finora si è espressa, e porta in primo piano l’”io” della sua condizione individuale, per chiedere ad Abelardo un intervento di consolazione, che ella pone sulla traccia dei “santi padri” > questo le serve per segnalare che la sua richiesta non è di un intervento qualsiasi, ma di uno scritto che possa misurarsi con quella tradizione autorevole. A differenza di quello che potrebbe far pensare questo riferimento, però, le intenzioni di Eloisa sono altre: nelle battute successive, infatti, diventa chiaro che l’Abelardo richiamato non è la guida spirituale, ma il marito e l’amante > trapasso in tutt’altra situazione e, scivolando nel codice amoroso, apre quella che è stata definita la sua eroide > presenza nell’Epistola II del modello ovidiano grazie al quale Eloisa impegna gran parte della sua lettera nella difesa della realtà del suo sentimento e della sua costanza salda ed indubitabile, perché continuamente attestata dai suoi atti. Per far ciò ella ripercorre la storia passata, dall’innamoramento alla tragica monacazione, dove il motivo conduttore è l’onesta, la purezza del suo affetto; Eloisa vuole imprimere tutta la vicenda i caratteri di una straordinarietà quasi leggendari. Eloisa, quindi, si impegna strenuamente nella difesa del suo comportamento, pur però riconoscendo la problematicità e la colpevolezza del suo amore. III) Terza epistola: Abelardo coglie le pericolose smagliature della proposta di Eloisa, ma, per rispondere, utilizza l’attenuante procedimento dell’insinuatio, che riprende le proposizioni di Eloisa per riproporle a lei in positivo nella forma corretta, come un modello di pensiero e comportamento che, apparentemente già ritrovato in lei, valga a suggerire e a stimolare il necessario adeguamento. Abelardo si dimostra pronto a dedicare ad Eloisa, la badessa esemplare che deve essere, uno scritto di esortazione e d’insegnamento tutto in nome di Dio. Se Eloisa chiedeva il rinnovarsi di un rapporto esclusivo tra lei ed Abelardo, in cui Dio era assente, egli ne riconosce, ma lo volge nell’unica forma possibile: un rapporto con Dio che si sostanzia nella preghiera. IV) Quarta epistola: l’attenuante pedagogia indiretta delle parole di Abelardo non sembra soddisfare Eloisa, ma anzi provoca una reazione esacerbata, che la porta in questa lettera a trasformare la richiesta dell’epistola precedente, in un appello appassionato, sostenuto da una drammatica rappresentazione di se stessa e della propria condizione. È ancora presente il modello delle Eroidi, ma questa volta Eloisa, riprendendolo, lo forza anche, fino a farlo esplodere, non solo esasperando le tonalità patetiche, ma soprattuto sostanziandolo di una complessità intellettuale del tutto estranea all’originale. Come nella sua prima lettera, anche in questa Eloisa si presenta dapprima con il “noi” collettivo, ma le tonalità di patetica disperazione che caratterizzano le sue espressioni, intrecciando motivi spirituali alla ripresa del tema tutto erotico dell’impossibilità della sopravvivenza alla morte dell’amato (morte di Abelardo: tema affrontato alla fine della terza lettera), rivelano come il “noi” serva in realtà a creare una sorta di voce corale in cui Eloisa proietta ed enfatizza i suoi sentimento prima di distaccarsi per recuperare l’”io” individuale. Il passaggio all’ “io” è ancora tutto nel segno dell’unicità del rapporto con Abelardo e si dà spazio qua ad una

seconda rivisitazione del passato. La tragedia che li ha travolti è per lei fonte di dolore insanabile non solo perché ha posto fine ad una felicità straordinaria, ma soprattuto perché, colpendoli quando essi erano già sposati e non nel momento della colpa, è segnata da una profonda ingiustizia che Eloisa non riesce ad accettare e di cui continua a rimproverare Dio. Sta qua il vero dramma che ella vuole rivelare ad Abelardo: la sua attuale condizione monastica può rendere soddisfazione a lui, ma non è per lei mezzo di riconciliazione con Dio e questo non solo perché ella non riesce ad accettare il disegno divino, ma soprattutto perché ella non riesce a provare alcun reale pentimento per i suoi comportamenti passati. V) Quinta epistola: risposta altrettanto pressante ed articolata. Egli decide di procedere sistematicamente per quattro punti, il primo dei quali, il fatto che nella salutatio della sua lettera precedente egli ha anteposto a se stesso Eloisa, gli offre il destro per introdurre un motivo di rilievo ben maggiore. Il capovolgimento dell’ordine naturale nella formula di saluto, infatti, viene giustificato dalla condizione della nuova gerarchia che si è venuta a creare tra di loro, quando ella, trasformandosi da sua sposa a “sposa del Signore”, è divenuta anche sua “signora” e, dunque, a lui superiore e degna di essere a lui anteposta > introduce un’ampia esaltazione della sposa/monaca. Dopo l’invito a mutare atteggiamento, è ora Abelardo a rivisitare il passato per distruggere, punto per punto, la ricostruzione che ne aveva fatto Eloisa: l’intervento di Dio è stato benevolo e salvifico, giusto e utile anche se li ha colpiti quando non erano amanti, ma dopo il matrimonio. Alla fine Abelardo capovolge il discorso di Eloisa: non è lui che ella deve piangere, né riversare il suo amore, ma sull’unico a cui è veramente legata da “matrimonio felice”, il Cristo. Eloisa non deve vivere questa scelta divina come un’ingiustizia, ma come un privilegio di cui Abelardo rende grazio a Dio, spegnendo in lui il desiderio carnale, e risparmiando lei, riservandola così a molte maggiori sofferenza e alla beatitudine che viene solo dal combattimento. In questa pacifica accettazione della provvidenzialità divina, Abelardo può infine configurare il rinnovarsi del loro legame, nell’unica forma possibile, ovvero la comune partecipazione al Cristo e alla preghiera. E proprio con una preghiera si conclude il discorso di Abelardo. VI) Sesta epistola: ultima lettera di Eloisa. Ciò che colpisce è prima di tutto l’assenza di riferimenti all’articolata proposta di Abelardo, di cui accoglie solo l’invito a cessare lamento e recriminazioni. L’obbedienza nel silenzio è certo interpretabile quale adesione di Eloisa ad un generale codice monastico, in particolare femminile; così le sue parole potrebbero costituire il primo di una serie di indicatori con i quali ella segnala in maniera indiretta l’affiorare di un possibile mutamento di stato d’animo nella direzione proposta da Abelardo. Ma i termini del discorso di Eloisa possono anche essere interpretati come un suo ultimo riferimento a quel codice amoroso che ha caratterizzato le lettere precedenti, prima di una definitiva cancellazione del suo “io” parlante nel ripiegamento nel “noi” comunitario. Il dolore di Eloisa non è mutato, ma non c’è più spazio per scriverne e non resta che mettere tutto a tacere. La transizione alla nuova materia, ovvero la richiesta ad Abelardo di una Regola specifica per le donne, tuttavia reca traccia di questo qualcosa non pacificato: Eloisa sceglie di caratterizzare la specificità femminile non con i temi aulici cari ad Abelardo, ma con problemi di cocolle, di indumenti di lino e lana, di mutande e mestruazioni. Ma se l’affermata debolezza femminile sembra spingerla dapprima al ripiegamento su uno standard ascetico attenuato, il suo discorso muta via via di tono e la conduce allo scardinamento della normativa comportamentale della tradizione monastica. La necessità di una Regola si riduce infine alla richiesta di fronteggiare qualche comportamento rischioso e, soprattuto, di dare ordine all’ufficio divino, che Eloisa identificava come priorità della vita monastica. VII)Settima epistola: ha carattere teorico > costituisce l’esposizione più organica della visione abelardiana del monachesimo femminile, della sua origine e dei suoi fondamenti teologici, ed anche una delle più aperte esaltazioni della dignità del sesso femminile e della vocazione delle religiose. La vita religiosa delle donne, afferma Abelardo, ha come quella degli uomini fondamento e modello nell’azione di Cristo e in particolare nel privilegiato legame di devozione e fedeltà tra Cristo e le pie donne, quindi c’è uguaglianza tra la vocazione femminile e quella maschile. C’è però un paradosso che, per Abelardo, costituisce la condizione femminile: indubitabilmente inferiore per natura, più deboli rispetto all’uomo, peccatrici, in virtù dell’amore di Cristo e per il loro amore per Cristo, le

pie donne divengono luogo primario di operazione della grazia e ottengono così una collocazione privilegiata rispetto all’uomo. Per confermare ciò Abelardo ripercorre tutta la storia della salvezza, a partire da Eva, così da dimostrare come le donne abbiano sempre goduto di una dignità superiore. VIII)Ottava epistola: carattere meno teorico e più applicativo > come Abelardo stesso dice, ha ...


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