\"Alla sua donna\" di Giacomo Leopardi PDF

Title \"Alla sua donna\" di Giacomo Leopardi
Author Paola Staffolani
Course Letteratura italiana
Institution Università degli Studi di Macerata
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Commento e parafrasi del canto XVIII di Giacomo Leopardi "Alla sua donna"....


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Leopardi - "Alla sua donna" Letteratura Università degli Studi di Macerata 6 pag.

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Canto XVIII “Alla sua donna” di G. Leopardi

Cara beltà che amore Lunge m'inspiri o nascondendo il viso, Fuor se nel sonno il core Ombra diva mi scuoti, O ne' campi ove splenda Più vago il giorno e di natura il riso; Forse tu l'innocente Secol beasti che dall'oro ha nome, Or leve intra la gente Anima voli? o te la sorte avara Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara? Viva mirarti omai Nulla speme m'avanza; S'allor non fosse, allor che ignudo e solo Per novo calle a peregrina stanza Verrà lo spirto mio. Già sul novello Aprir di mia giornata incerta e bruna, Te viatrice in questo arido suolo Io mi pensai. Ma non è cosa in terra Che ti somigli; e s'anco pari alcuna Ti fosse al volto, agli atti, alla favella, Saria, così conforme, assai men bella. Fra cotanto dolore Quanto all'umana età propose il fato, Se vera e quale il mio pensier ti pinge, Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora Questo viver beato: E ben chiaro vegg'io siccome ancora Seguir loda e virtù qual ne' prim'anni L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse Il ciel nullo conforto ai nostri affanni; E teco la mortal vita saria Simile a quella che nel cielo india. Per le valli, ove suona Del faticoso agricoltore il canto, Ed io seggo e mi lagno Del giovanile error che m'abbandona; E per li poggi, ov'io rimembro e piagno I perduti desiri, e la perduta Speme de' giorni miei; di te pensando, A palpitar mi sveglio. E potess'io, Nel secol tetro e in questo aer nefando, L'alta specie serbar; che dell'imago,

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Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago. Se dell'eterne idee L'una sei tu, cui di sensibil forma Sdegni l'eterno senno esser vestita, E fra caduche spoglie Provar gli affanni di funerea vita; O s'altra terra ne' superni giri Fra' mondi innumerabili t'accoglie, E più vaga del Sol prossima stella T'irraggia, e più benigno etere spiri; Di qua dove son gli anni infausti e brevi, Questo d'ignoto amante inno ricevi.

INTRODUZIONE E’ una canzone del 1823. Questo testo che prevede la dichiarazione d’innamoramento da parte del poeta ma, paradossalmente, è l’innamoramento per una donna che ancora non esiste (“è una donna che non si trova..”). Dunque Leopardi ha una propensione amorosa per una donna che non si trova e non si può trovare. Non è ancora un’effettiva passione leopardiana, ma è un inno dedicato all’immagine della donna, all’ideale femminile. La struttura delle strofe è identica e nella struttura del libro dei Canti assume una posizione peculiare, staccata da essa. Questo testo va a separare la prima parte dell’attività poetica leopardiana (dal ’18 al ’23) dalla seconda parte (a partire dal ’26) - dal ’23 al ’28 c’è il cosiddetto “silenzio poetico”, ed è il momento delle Operette morali. Quindi, di fatto, questa canzone è l’ultima della prima parte. Nel 1825 ripubblica in rivista alcuni suoi testi, con annotazioni alle dieci canzoni, e scrive alcune parole sul canto. Questo è uno di quei canti in cui l’attenuazione del pessimismo è temperata da una forte carica ironica. PARAFRASI Prima strofa Cara beltà che amore Lunge m'inspiri o nascondendo il viso, Fuor se nel sonno il core Ombra diva mi scuoti, O ne' campi ove splenda Più vago il giorno e di natura il riso; Forse tu l'innocente Secol beasti che dall'oro ha nome, Or leve intra la gente Anima voli? o te la sorte avara Ch'a noi t'asconde, agli avvenir prepara? “Cara beltà”, cioè cara bellezza, che mi sei cara, che mi ispiri amore, mi fai provare amore per te, da lontano (“lunge”), nascondendo il viso (perché la donna non esiste, è solo immaginata). Sono due i casi in cui Leopardi avverte di potersi avvicinare a questa immagine femminile: “nascondi il viso..” sempre, tranne (“fuor se”) durante il sonno (è solo tramite l’immagine sognata che il poeta riesce ad avere un rapporto con lei) o nei campi, dove il giorno è più piacevole, bello, sereno e dove splende il riso nella natura (benigna, quindi piante, ecc.).

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“Forse”= possibilità della presenza della donna non nel presente, forse c’è stata nel passato e forse nel futuro (teoria del piacere). Forse tu sei esistita ed hai reso beato quel secolo passato che prende il nome dall’oro, cioè l’età aurea, un passato mitico; ora invece voli tra la gente come una leggera (“lieve”) anima, cioè non sei altro che un puro spirito. O forse, quel destino maligno (“sorte avara”) che non ci vuole far godere attualmente e quindi ti nasconde a noi, ti prepara per l’avvenire? Seconda strofa Viva mirarti omai Nulla speme m'avanza; S'allor non fosse, allor che ignudo e solo Per novo calle a peregrina stanza Verrà lo spirto mio. Già sul novello Aprir di mia giornata incerta e bruna, Te viatrice in questo arido suolo Io mi pensai. Ma non è cosa in terra Che ti somigli; e s'anco pari alcuna Ti fosse al volto, agli atti, alla favella, Saria, così conforme, assai men bella. Infatti non ho più speranza di poterti vedere viva presente oggi davanti ai miei occhi. Forse, solo in un caso potrò vederti: quando il mio spirito, la mia anima (“ignudo e solo”) non ci sarà più, cioè in punto di morte. Così come potrò vederti nel momento del trapasso, della morte, io in realtà avevo sperato proprio all’inizio della mia vita “incerta e bruna”, cioè triste, che tu potessi essermi guida (“viatrice”) in questo mondo duro, arido (“arido suolo”), ma non c’è nulla sulla terra che ti possa assomigliare. “…e s’anco pari alcuna”: Leopardi ora contrappone la realtà all’ideale: se anche qualche donna “ti fosse pari”, cioè fosse uguale a te, sia nella forma del viso, sia nel modo di comportarsi (“atti”), sia come espressione vocale (“favella”), sarebbe molto meno bella (“assai men bella”). Terza strofa Fra cotanto dolore Quanto all'umana età propose il fato, Se vera e quale il mio pensier ti pinge, Alcun t'amasse in terra, a lui pur fora Questo viver beato: E ben chiaro vegg'io siccome ancora Seguir loda e virtù qual ne' prim'anni L'amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse Il ciel nullo conforto ai nostri affanni; E teco la mortal vita saria Simile a quella che nel cielo india. All’interno ci sono caratterizzazioni della durezza del presente: “fra cotanto dolore..", tra tanto dolore al quale il destino ha condannato tutta la vita umana, anche in questo dolore così grande se qualcuno (“alcuno”) ti potesse amare qui sulla terra, se tu fossi reale e tu potessi essere non solo vera ma anche uguale a quella che io immagino nel mio pensiero, per lui sarebbe sufficiente (“pur fora”) per rendergli la vita beata.

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E capisco bene, mi rendo perfettamente conto, che il tuo amore – se io potessi amare una donna come te – mi farebbe ancora inseguire le lodi altrui, cioè preoccuparmi anche dell’opinione pubblica, rendendomi degno del tuo amore, e inseguire le virtù, cioè farebbe in modo che io mi comportassi in maniera virtuosa, così come io pensavo che mi sarei dovuto comportare nella mia età giovanile. Quindi il tuo amore mi renderebbe un uomo non solo migliore, ma anche perfetto, così come io avevo sperato di poter vivere nel momento delle mie speranze più vive. In realtà ora, il Cielo, il destino, non ha aggiunto nessun conforto (“nullo conforto”) ai nostri affanni, perché così non è, cioè la donna non esiste ma se la può soltanto immaginare. E con te (“teco”) la vita mortale degli uomini sarebbe simile a quella vita che rende beati in Dio (“ india”: v. indiare = godere della potenza di Dio; contrario di in-demoniato) - richiamo alla Divina Commedia, nella quale Beatrice portò Dante davanti alla visione di Dio, in paradiso. Quarta strofa Per le valli, ove suona Del faticoso agricoltore il canto, Ed io seggo e mi lagno Del giovanile error che m'abbandona; E per li poggi, ov'io rimembro e piagno I perduti desiri, e la perduta Speme de' giorni miei; di te pensando, A palpitar mi sveglio. E potess'io, Nel secol tetro e in questo aer nefando, L'alta specie serbar; che dell'imago, Poi che del ver m'è tolto, assai m'appago. Nelle valli, in mezzo alla natura, dove risuona il canto del contadino che fatica (“faticoso agricoltore”) – ricordiamo che siamo di fronte ad un canto che viene utilizzato per alleviare la fatica del lavoro, anche se in questo caso non provoca la compassione di Leopardi (come in “A Silvia”); e mi dispero del mio errore giovanile. Nelle colline (“poggi”) dove io mi dispero sui perduti desideri, così belli e soddisfacenti, e sulla speranza perduta dei giorni miei. Immaginandoti, si risveglia il mio cuore, palpitando. Leopardi qui si dispera per non aver più i desideri, la speranza, che lo avevano caratterizzato nell’età giovanile; l’unico momento in cui non si dispera, in cui si risveglia dalla sua disperazione, in cui il suo cuore palpita è quando immagina e si avvicina all’immagine femminile alla donna, nel sonno e nel sogno. E se io potessi in questo secolo disperato e in questa aria orribile, che non si può dire quanto sia aspra (“nefando”, innominabile), conservare l’immagine così bella, così profonda che mi aveva colpito nel sonno, di questa donna. Quinta strofa Se dell'eterne idee L'una sei tu, cui di sensibil forma Sdegni l'eterno senno esser vestita, E fra caduche spoglie Provar gli affanni di funerea vita; O s'altra terra ne' superni giri Fra' mondi innumerabili t'accoglie, E più vaga del Sol prossima stella T'irraggia, e più benigno etere spiri;

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Di qua dove son gli anni infausti e brevi, Questo d'ignoto amante inno ricevi. A questo punto c’è una serie di possibilità (le stesse ricordate nelle annotazioni di Leopardi): 

la prima è quella che lei non esista realmente, ma solo nelle idee platoniche (“eterne idee”)

Se tu sei una di quelle idee platoniche, a cui Dio non vuole (“sdegni”) rivestire di una forma sensibile, cioè di una realtà corporea, quindi se sei soltanto un’idea, qualcosa di non concreto, e non vuole che tu provi, all’interno di questi corpi deperibili che noi abbiamo, i dolori di questa vita triste, dolorosa e che ha il solo scopo di portarci verso la morte. 

la seconda è quella che lei esista ma in un altro pianeta dell’Universo

O forse tu non appartieni a questa terra, ma appartieni ad una terra tra i numerosi pianeti del cielo , cioè vivi su un altro pianeta, in un luogo dove ti irraggia, ti illumini, ti faccia risplendere un’altra stella più bella del Sole. E forse tu respiri un aria (“etere”) più benigna, più piacevole di quella che noi mortali siamo costretti a respirare sulla Terra. Di qua sia se tu sia un’idea sia che tu viva su un altro pianeta, dove ci sono anni brevi e tristi, ricevi questo inno di lode di colui che ti ama ma che tu non conosci (“ignoto”), cioè Leopardi stesso.

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Passiamo ora alle figure femminili seducenti per le quali Leopardi prova un sentimento amoroso. La prima donna è Gertrude, la cugina di Monaldo Leopardi (il padre di Giacomo Leopardi) per il quale il poeta provò un trasporto amoroso. Questa donna, molto più grande di lui, madre di famiglia, che nel 1817 fa una visita a palazzo Leopardi e questo provoca in lui dei sentimenti amorosi. “Diario del primo amore” è un diario in cui Leopardi tiene conto di questo incontro con la donna e parla di questo suo innamoramento. “Io cominciando a sentire l’impero della bellezza, da più d’un anno desiderava di parlare e conversare, come tutti fanno, con donne avvenenti, delle quali un sorriso solo, per rarissimo caso gittato sopra di me, mi pareva cosa stranissima e meravigliosamente dolce e lusinghiera; e questo desiderio della mia forzata solitudine era stato vanissimo fin qui. Ma la sera dell’ultimo Giovedì, arrivò in casa nostra, aspettata con piacere da me, né conosciuta mai, ma creduta capace di dare qualche sfogo al mio antico desiderio, una Signora Pesarese nostra parente più tosto lontana, di ventisei anni, col marito di oltre a cinquanta, grosso e pacifico, alta e membruta quanto nessuna donna ch’io m’abbia veduta mai, di volto però tutt’altro che grossolano, lineamenti tra il forte e il delicato, bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni, maniere benigne, e, secondo me, graziose, lontanissime dalle affettate, molto meno lontane dalle primitive, tutte proprie delle Signore di Romagna e particolarmente delle Pesaresi, diversissime, ma per una certa qualità inesprimibile, delle nostre Marchegiane. […]” “Io cominciando a sentire..”: in questa parte Leopardi si pone nella situazione petrarchesca (“Io che l’esca amorosa nel petto avea..”). Cosa interessante da notare è che il tipo fisico della donna (“bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni, maniere benigne, e, secondo me, graziose..”) sopra descritta è come se determinasse il tipo fisico che forma poi le successive passioni amorose di Leopardi e si può rivedere in determinate personificazioni femminili nelle sue opere. Un esempio è la raffigurazione della Natura nel testo “Dialogo della natura e di un islandese”: qui Leopardi definisce la natura come una forma smisurata di donna. Altre donne delle quali Leopardi si innamora: - Fanny Targioni Tozzetti, una donna che Leopardi incontra a Firenze ad inizio degli anni ’30.

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