Appunti vita e opere di Seneca PDF

Title Appunti vita e opere di Seneca
Course Scienze della formazione primaria
Institution Università degli Studi del Molise
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appunti delle lezioni in cui ci è stato spiegato il pensiero e le opere di Seneca...


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SENECA Lucio Anneo Seneca, figlio Lucio Anneo Seneca detto il Padre o il Retore, apparteneva a una ricca famiglia provinciale di rango equestre. Nacque a Corduba (oggi Cordova), in Spagna, forse 4 a.C. (gli studiosi hanno proposto date vanno dal 12 all'1 a.C.). Fu condotto molto presto a Roma, dove si svolse la sua istruzione retorica filosofica. Egli stesso ricorda, nelle Epistole a Lucilio, i maestri della sua giovinezza: Papirio Fabiano, retore e filosofo; lo stoico Attalo; il neopitagorico Sozione, da cui prese costumi sobri e austeri che conservò per tutta la vita. Pur avendo fatto con entusiasmo convinzione, quand'era molto giovane, la scelta della vita contemplativa, egli l'abbandonò per non dispiacere suo padre; intraprese il cursus honorum e rivesti la questura, in un anno che non siamo in grado di stabilire. Le sue eccezionali qualità oratorie, subito riconosciute e ammirate, lo destinavano una brillante carriera. Tuttavia i suoi rapporti con gli imperatori furono diffici fin dall'inizio. Caligola gli fu talmente ostile da progettare farlo uccidere e da desistere dal suo proposito soltanto perché convinto da una donna, potente a corte che Seneca era malato gravemente e che sarebbe morto in breve tempo. Più gravi conseguenze ebbe per lui l'ostilità dell'imperatore successivo, Claudio; questi infatti, nell'anno 41 d.C. ossia all'inizio del suo principato, istigato dalla moglie Messalina, lo accusò di adulterio con Giulia Livilla (sorella di Caligola, odiata da Messalina che vedeva in lei una rivale) e lo condannò all'esilio in Corsica. Qui Seneca rimase fino 49, quando fu richiamato Roma per l'intercessione della nuova moglie di Claudio, Agrippina, che lo volle come precettore del figlio Nerone. Egli entrava così nel palazzo imperiale e cominciava un lungo periodo di servizio al potere e anche di esercizio di esso. Nell'anno 54, infatti, quando Claudio morì e gli successe Nerone, Seneca si trovò a essere consigliere imperiale di un giovane non ancora diciottenne ed ebbe praticamente nelle sue mani il governo dell'impero: le fonti affermano concordemente che nei primi anni del principato neroniano il vero reggitore fu Seneca, insieme con Agrippina e con il prefetto del pretorio Afranio Burro. Ma la speranza, concepita da Seneca in quegli anni ed espressa nel De clementia , di fare del giovane principe un sovrano esemplare si rivelò ben presto un'illusione. Nel 59 Nerone,già da tempo in rotta con Agrippina (di cui non sopportava più le ingerenze e che si opponeva al suo matrimonio con Poppea Sabina), fece uccidere la madre. Non siamo in grado di ricostruire con certezza quale ruolo abbia avuto Seneca in questo delitto, del quale tuttavia non poté non essere, almeno parzialmente, complice corresponsabile. Quel che è certo è che Seneca rimase al fianco di Nerone anche dopo il matricidio. Comunque la sua posizione si fece sempre più debole per l'insofferenza di ogni freno da parte del principe e divenne insostenibile dopo che, nel 62, Burro morì e fu sostituito dal nuovo prefetto del pretorio, Tigellino.

A questo punto Seneca, adducendo ragioni di età e di salute, chiese a Nerone il permesso di abbandonare l'attività pubblica e di ritirarsi a vita privata, dedicandosi esclusivamente ai suoi studi. Dal 62, l'anno del ritiro (che Seneca chiama secessus), al 65, l'anno della morte, egli realizzò finalmente quella vita contemplativa cui aspirava fin dalla giovinezza e che tante volte aveva lodato e raccomandato nei suoi scritti e si dedicò interamente alla riflessione, alla lettura, allo studio e alla composizione delle sue opere. Non riusci tuttavia a mettersi al riparo dall'ostilità di Nerone. Quando infatti, nella primavera del 65, fu scoperta la congiura pisoniana, il filosofo fu considerato (non sappiamo se a torto o a ragione) tra i complici e costretto a togliersi la vita. Egli affrontò la morte, secondo il racconto di Tacito, con coraggio, serenità e nobiltà d'animo, ispirandosi all'esempio delle "morti filosofiche" di Socrate e di altri grandi sapienti del passato. Oltre alle opere conservate, Seneca ne scrisse molte altre che sono andate perdute. A parte le orazioni, di cui non resta traccia, abbiamo scarsi frammenti, e di testi di argomento filosofico. La grande fama dell'autore favorì inoltre il sorgere di opere a lui falsamente attribuite: nel IV secolo d.C. fu composto addirittura, in ambito cristiano, un carteggio fra Seneca e San Paolo (suo contemporaneo e anch'egli autore di epistole). Tra le opere di dubbia autenticità ricordiamo una raccolta di epigrammi (una settantina, in distici elegiaci). È difficile e probabilmente impossibile stabilire se qualcuno di questi componimenti risalga effettivamente a Seneca o se si tratti invece di esercitazioni scolastiche (forse anche molto posteriori) o di veri e propri falsi. DIALOGI Caratteristiche Un gruppo di dieci opere di argomento filosofico ci è pervenuto sotto il titolo complessivo di Dialogi; nove sono in un libro solo; una, il De ira, è in tre libri. Non sappiamo quando si sia formata questa raccolta ne se il titolo risalga all'autore stesso. In realtà quelli di Seneca non sono dialoghi come quelli di Platone e di Cicerone, in cui la discussione si svolge tra due o più personaggi in una cornice drammatica" e con un'ambientazione storica, sia pure fittizia. Nei dialoghi seneca al contrario, l'autore parla sempre in prima persona avendo come unico interlocutore il dedicatario dell'opera. L'impianto dei cosiddetti dialoghi di Seneca non corrisponde dunque a quello dei dialoghi veri e propri, ma risente dell'influsso di un'altra tradizione, quella della diatriba cinico-stoica, con cui condivide l'impostazione vivacemente discorsiva, la tendenza a rivolgersi direttamente al destinatario, immaginando di avviare con lui una discussione, e specialmente la frequente introduzione delle domande e delle obiezioni di un interlocutore fittizio (portavoce delle opinioni comuni o di posizioni diverse da quelle dell'autore), che non sempre s'identifica con il dedicatario, in quanto è presentato talora impersonalmente con formule del tipo "si quis dicat" e simili. I TRATTATI Non differiscono sostanzialmente dai Dialogi nell'impostazione formale le altre opere filosofiche che la tradizione non ha compreso nella raccolta: i trattati De clementia, De beneficiis e Naturales quaestiones.

Anche in essi l'autore parla sempre in prima persona rivolgendosi a un dedicatario con cui immagina di dialogare e di discutere; , anche qui rileviamo un impianto argomentativo e dialettico energico e impegnato e l'uso di procedimenti diatribici, come la vivace polemica con obiettoni fittizi e il frequente ricorso ad aneddoti e ad esempi tratti dalla storia greca e romana. Particolarmente interessante è il De clementia, un trattato di filosofia politica in cui Seneca teorizza ed esalta la monarchia illuminata e che per questo motivo ebbe grande successo ed esercitò un notevole influsso sul pensiero politico successivo, specialmente in età moderna. Rivolgendosi a Nerone, da poco divenuto imperatore (l'opera risale agli anni 55-56) perché, pur disponendo di un potere illimitato, egli dà prova di possedere la virtù più grande del sovrano: la clemenza, definita dal filosofo come la moderazione e l'indulgenza che chi ha il potere di punire adotta spontaneamente mo nell'infliggere le pene. Il re giusto (dice Seneca, seguendo fonti stoiche) instaura infatti con i sudditi un rapporto paterno: punisce malvolentieri, solo quando è indispensabile, e sempre per il bene dei sottoposti, che lo contraccambiano con sincero affetto, devozione e fedeltà. Si può notare innanzitutto che Seneca prende atto realisticamente del fatto che il principato , nonostante la finzione augustea della restaurazione della repubblica, è una monarchia assoluta. Proprio per questo il filosofo pone al centro del suo discorso, considerandola la virtù politica per eccellenza, non più la giustizia (come avevano fatto Platone e Cicerone), ma la clemenza, ossia una qualità che implica un rapporto di in quanto esercitata dal superiore nei riguardi degli inferiori: il punto di riferimento non è più costituito dalle leggi, cui tutti i cittadini devono sottostare, ma dalla volontà del principe, libera da ogni limite o vincolo esterni al principe stesso. Partendo da questo dato di fatto, il filosofo cerca di motivare teoricamente la realtà positiva del principato e trova un efficace supporto nella dottrina politica stoica, che tradizionalmente indicava nella monachia la miglior forma di governo a condizione che il re fosse saggio. Ecco dunque che Seneca presenta senz'altro Nerone come tale, attribuendogli tutte le virtù (in primo luogo la clemenza) proprie del sovrano perfetto. È chiaro che sulla figura del giovanissimo imperatore Seneca proietta un modello ideale: i comportamenti esemplari che gli attribuisce corrispondono a un programma politico che implicitamente lo esorta a realizzare, fingendo di considerare già attuati quelli che sono i suoi auspici e le sue speranze. È altrettanto evidente,tuttavia, il carattere astratto e utopistico di tale programma politico, la cui realizzazione, in assenza di qualsiasi garanzia legale o condiziona mento esterno, è affidata esclusivamente alla libera e spontanea volontà del sovrano e dipende dall'improbabile eventualità che quest'ultimo s'identifichi con la chimerifa figura del saggio stoico. Implicazioni politiche meno esplicite e vistose, ma non irrilevanti, ha l'ampio trattato De beneficiis ("I benefici"), in sette libri, dedicato all'amico Ebuzio Liberale. Seguendo, come al solito, fonti greche prevalentemente stoiche, Seneca dà precetti particolareggiati sul retto modo di fare e di ricevere i benefici, da lui presentati come il fondamento della convivenza civile e della vita sociale. Sono svolti, con abbonza di argomentazioni e di esempi e con l'attenzione rivolta a una casistica molto minuta, i temi dell'aiuto reciproco, dei doveri del superiore verso gli inferiori, della liberalità, della riconoscenza e dell ingratitudine. Negli anni del ritiro, quando Seneca ebbe il tempo di occuparsi sistematicamente dig fia, furono scritte le Naturales quaestiones ("Questioni naturali"), un trattato sui fenomeni atmosferici e naturali in sette libri, dedicato a Lucilio (il destinatario delle epistole).

Gli antichi facevano infatti rientrare nel campo della filosofia anche le scienze naturali, considerate pertinenti alla "fisica" (una delle tre parti della filosofia, insieme con la morale e con la logica, secondo quanto dice Seneca stesso nell'epistola 89). In coerenza con la sua impostazione di fondo, che subordina all'etica ogni altro interesse, Seneca si propone anche in quest'opera uno scopo essenzialmente morale; mira a liberare gli uomini dai timori che nascono dall'ignoranza dei fenomeni naturali (in questo senso il suo atteggiamento è simile a quello di Lucrezio) e ad insegnare loro il retto uso dei beni messi a disposizione dalla natura. Nel trattato viene esaltata più volte la ricerca scientifica, considerata il mezzo con cui l'uomo può innalzarsi al di sopra di ciò che è puramente umano ed elevarsi fino alla conoscenza delle realtà divine. Il filosofo, nel concludere la sua opera, si augura che gli uomini s'impegnino maggiormente nello studio dei fenomeni naturali ed esprime la certezza che in un futuro, sia pure molto lontano, il progresso scientifico porterà alla luce le verità ancora ignote (VII, 30, 2-5).

LE EPISTOLE A LICILIO LE CARATTERISTICHE Le Epistulae morales ad Lucilium (12-7) sono l'opera filosofica più importante di Seneca, quella in cui egli esprime nel modo più maturo e personale la sua visione della vita e dell'uomo e ci lascia il suo ultimo messaggio, che è anche il più ricco e il più profondo. Si tratta di una raccolta di lettere scritte dopo il ritiro dall'attività politica, dunque dal 62 al 65: se ne sono conservate (con qualche lacuna)124, distribuite in venti libri. Il destinatario è Lucilio Iuniore, un amico a cui Seneca dedicó anche le Naturales quaestiones e il dialogo De providentia. Egli assume nei confronti dell'amico più giovane l'atteggiamento del consigliere e del maestro, per aiutarlo a raggiungere quella sapienza che tuttavia ammette egli stesso di non possedere ancora, ma di cercare faticosamente giorno per giorno, in un incessante processo di autoeducazione. In realtà Seneca scrive per giovare non solo all'amico e a se stesso, ma anche e soprattutto ai posteri, come afferma esplicitamente in una delle prime epistole. Dunque quelle a Lucilio sono epistole letterarie, nel senso che sono state scritte con preciso scopo di essere pubblicate; anzi, questo è il primo epistolario propriamente letterario in latino, poiché, a differenza di quelli ciceroniani, fu concepito fin dall'inizio e globalmente in vista della pubblicazione. Ciò non significa tuttavia che le lettere senecane siano fittizie (come qualche studioso ha ipotizzato) e che i fatti e gli episodi a cui lo scrittore fa riferimento siano inventati. Uno dei tratti caratterizzanti del genere epistolare era appunto il riferimento personale ad avvenimenti, circostanze e occasioni della vita quotidiana: questo aspetto è presente anche in Seneca e occupa, anzi, uno spazio notevole, tanto da costituire principale differenza tra le Epistole e le altre opere filosofiche. Tuttavia è tipico e costante, nel nostro autore, in piena coerenza con la sua impostazione di fondo, l'impostazione degli spunti tratti dalla vita quotidiana in funzione morale: le esperienze personali vengono sempre trasformate in occasioni di attenta riflessione e di meditazione, da cui ricavare utili ammaestramenti. Ad esempio, nell'epistola 53 il vivace e spiritoso resoconto di una fortunosa traversata da Napoli a Pozzuoli, durante la quale Seneca è stato tormentato dal mal di mare, fornisce l'occasione per introdurre un confronto (comune nella filosofia antica) tra le malattie del corpo e quelle dell'anima.

Nell'epistola 54 il filosofo descrive un attacco di asma che l'ha colpito, provocandogli una grave crisi respiratoria riferisce all'amico le riflessioni sulla morte che quel fatto gli ha ispirato. Un altro tratto tipico del genere epistolografico presente nelle lettere di Seneca è il modo di procedere dell'esposizione, libero, disinvolto, colloquiale (anche se ha un livello, ovviamente, non "basso" e tanto meno volgare). Il filosofo assimila infatti esplicitamente il suo discorso al sermo, cioè ad una conversazione familiare, informale, tra amici; egli afferma che scrivendo a Lucilio gli sembra di conversare con lui e rileva il tono più semplice e più dimesso che si addice all'epistola, rispetto ad altre forme di discorso filosofico (Epistulae, 38). Tipica del sermo è l'assenza di sistematicità nell'esposizione della materia, evidente argomenti sia all'interno delle singole lettere (in cui spesso il passaggio da un tema all'altro avviene per associazione d'idee, con la libertà e la spontaneità di un colloquio informale) sia nella disposizione di esse all'interno della raccolta. Tale disposizione non sembra infatti corrispondere a un progetto chiaramente definito, all'intenzione di svolgere determinati argomenti in modo sistematico e secondo un ordine prestabilito. S'individua tuttavia un filo conduttore, una sorta di linea di sviluppo, nel progressivo avanzamento del destinatario, Lucilio, sulla strada della conoscenza filosofica. Mentre le prime epistole hanno uno spiccato carattere parenetico, cioè costituiscono un'insistente e appassionata esortazione alla filosofia rivolta a chi non ha ancora fatto una decisa scelta in quella direzione, a partire dal libro III (cioè dall'epistola 30) Seneca, compiacendosi dei progressi fatti dal suo allievo, abbandona il tipo di ammaestramento adatto ai principianti seguito fino ad allora - che prevedeva l'inserzione, nell'ultima parte di ogni lettera, di una o più massime concise ed efficaci- per passare a metodi d'insegnamento più impegnativi. Ma i progressi di Lucilio non sono soltanto di tipo intellettuale: ciò che più conta per Seneca è il perfezionamento morale, che coincide con la scelta dell'otium, gradualmente realizzata dall'amico proprio nel corso dell'epistolario. Il filosofo infatti esorta ripetutamente Lucilio, che da varie lettere risulta impegnato come procuratore (ossia alto funzionario imperiale) in Sicilia, a lasciare le occupazioni politiche e i relativi doveri sociali per dedicarsi esclusivamente allo studio e alla pratica del la sapientia. Più volte, in una serie di lettere successive, egli accenna al ritiro imminente di Lucilio, desiderato e progettato, e lo presenta come finalmente e definitivamente realizzato a partire dall'epistola 82. LO STILE DELLA PROSA SENECANA Abbiamo detto che nelle Epistole a Lucilio l'infusso del genere epistolografico comporta un tono e un linguaggio spiccatamente colloquiali. Tuttavia lo stile delle Epistole non sostanzialmente diverso da quello dei dialoghi e dei trattati, se non in quanto esso assume spesso movenze intime e confidenziali che nelle altre opere sono meno frequenti. Costante in tutta la produzione filosofica senecana è, come abbiamo già accennato, l'atteggiamento dell'autore che, parlando sempre direttamente in prima persona e rivolgendosi a un interlocutore reale o fittizio, s'impegna in un dialogo vivace, serrato, appassionato, con l'intento non solo di persuadere razionalmente il destinatario, ma anche di coinvolgerlo affettivamente. Ne deriva uno stile molto diverso da quello del grande predecessore latino di Seneca in campo filosofico, Cicerone. A differenza di quest'ultimo, infatti, Seneca trasferisce all'ambito dello stile filosofico gli strumenti espressivi nati in funzione dell'oratoria, usando i pià raffinati procedimenti retorici allo scopo di raggiungere il massimo effetto non solo persuasivo, ma anche emozionale.

I mezzi di cui si serve il filosofo sono quelli della retorica dei suoi tempi, dominata da un gusto che possiamo definire "ariano, in quanto presenta precise analogie con quello stile concettoso, pregnante e ricco di figure cui Cicerone applicava tale denominazione. È quello stile incentrato sulla sententia, sulla frase a effetto di cui ci fornisce un'evidente e significativa esemplificazione l'antologia di declamazioni composta da Seneca Padre. In effetti la cifra più tipica della prosa senecana - che costituisce anche la differenza più evidente rispetto allo stile ciceroniano - s' individua nell'organizzazione sintattica e fonico-ritmica del discorso, cui nucleo la frase. L'ampio periodo costruito ipotatticamente si spezza, dando luogo a una netta prevalenza di brevi proposizioni in cui spesso alla paratassi si accompagna l'asinteto, cioè l'assenza di quei nessi congiunzionali (ac, nam, sed, at, tamen, igitur ecc.) che Cicerone invece prediligeva, in quanto gli permettevano di rendere espliciti i collegamenti logici del discorso. Seneca lascia spesso impliciti tali nessi, conferendo allo stile maggiore stringatezza, tensione e vigore oppure li sostituisce con altri di tipo fonico-semantico, come l'anafora, l'epifora o altre figure della ripetizione. Lo stile senecano, pur diverso da quello ciceroniano, non rifiuta affatto, anzi fa larghissimo uso dei procedimenti propri della concinnitas: l'antitesi, il parallelismo l'omeoteleuto, l'anafora, la figura etimologica, il poliptoto ecc. Tali procedimenti tuttavia non sono finalizzati alla costruzione di periodi complessi, armonicamente strutturati e sintatticamente e logicamente compatti, ma servono a forgiare sentenze morali in cui il pensiero sia espresso nel modo più intenso, penetrante e incisivo che nel minimo di parole sia concentrato il massimo di significato. Le frasi a effetto, che sanno presentare concetti e giudizi in modo folgorante e definitivo, costituiscono in certo modo il suggello di uno stile che si serve dei procedimenti retorici per aumentare, con l'espressività della prosa artisticamente elaborata, la potenza persuasiva del messaggio morale. LE TRAGEDIE Ci è pervenuto sotto il nome di Seneca un corpus di dieci tragedie (le uniche di tutta la letteratura latina che conosciamo non frammentariamente); nove sono di argomento mitologico; una, dal titolo Octavia, è una pretesta. L'Octavia è considerata quasi concordemente dagli studiosi opera di un imitatore di Seneca. Essa è ambientata alla corte imperiale nell'anno 62 d.C. e ha tra i ...


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