Cahiers du cinéma Riassunto PDF

Title Cahiers du cinéma Riassunto
Course Storia e critica del cinema
Institution Università degli Studi Gabriele d'Annunzio - Chieti e Pescara
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Riassunto libro...


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LA POLITICA DEGLI AUTORI Presentazione di Antoine de Baeque La politica degli autori è l’espressione dell’idea critica più celebre della storia del cinema. L’America ne ha fatto un uso massiccio dopo che Andrew Sarris l’ha adattata e definita sotto il nome di «Author Theory», così da renderla una delle chiavi di lettura dei film nelle università d’oltreoceano. In Francia e in Italia il concetto ha avuto un successo inatteso, nonostante sia stato un po’ limitato perché l’idea di autore si era spogliata della sua strumentalizzazione politica. Il «cinema d’autore» è diventato la firma del cinema internazionale, un genere capace di abbracciare film tra loro estremamente diversi. La definizione di autore per i cineasti che se ne vantano significa fare un cinema che assomigli a loro stessi (ai cineasti). Francois Truffaut è stato il primo a forgiare il concetto di politica degli autori (tra il 1954 e il 1955) e ad usarlo come un’arma diretta contro la critica ed il cinema francese di spicco degli anni ‘50. Il 1° settembre 1954, su Arts, Truffaut pubblicò un articolo elogiativo su uno dei più disprezzati e dimenticati cineasti del tempo: Abel Gance. Truffaut affermò che bisogna amare tutti i film di Abel Gance, sia quelli ritenuti minori sia quelli ritenuti maggiori. La politica degli

autori è la maniera di amare tutto un autore, tutto il suo metteur en scène: amare tutto Renoir, tutto Becker, tutto Rossellini, tutto Lang, tutto Hitchcock, così come tutto Gance fu amato e difeso da Truffaut. Questo amore per i metteur en scène può essere liberato dall’accezione meramente politica. Infatti, si può interpretare la parola «politica» in un’accezione profondamente ironica, cioè come un segnale di disimpegno auspicato dalla critica (in un momento in cui gli ambienti intellettuali non fanno altro che parlare di impegno). La sola politica dei Cahiers du cinéma consiste nel parlare di cinema, di autori e di messinscena. Questo è il motivo per cui l’espressione politica degli autori è giunta a designare tutto (politica) e il contrario di tutto (disimpegno politico). Il suo messaggio “politico” (la sua morale) è racchiuso tutto nella forma cinematografica espressiva dell’autore (messinscena: inquadrature, movimenti di macchina e montaggio). La politica degli autori è volta a disimpegnare il giudizio sui film sia dal contenuto che dalla forma: non esiste più una gerarchia tra soggetti grandi e piccoli, tra messaggi buoni e cattivi; così come non vengono considerate le condizioni economiche, tecniche e storico-politiche di realizzazione dei film). La politica degli autori si dimostra davvero poco efficace nel difendere il cinema giovane. La Nouvelle Vague rivelò meglio le ambiguità della politica degli autori. Questa politica è in grado di valutare meglio ciò che si accumula da ciò che emerge; il suo campo d’azione è quello americano, talvolta quello francese.

Approfondimenti (autonomi, fonte: Wikipedia) storici introduttivi:

La Politica degli Autori è stata una corrente di pensiero di critica cinematografica sorta in Francia negli anni cinquanta, che teorizzava un modo completamente nuovo di fare critica al cinema. I principali esponenti di questo movimento furono François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Éric Rohmer, ossia giovani critici (alcuni destinati al successo anche come registi) che lavoravano all'interno di riviste di cinema specializzate, come Cahiers du Cinéma e Gazette du Cinema. La politique nasce attraverso il contributo di alcuni critici e teorici come:  André Bazin,noto per il concetto di autorialità e di messa in scena come espressione di un linguaggio universale;  Alexandre Astruc, che ha concepito l'idea Camera-Stylo, ossia della cinepresa come strumento di libera espressione del regista autore del film;  Maurice Leendhardt, che ha iniziato a stilare classifiche di gradimento anche per registi fino ad allora non ritenuti degni di particolari attenzioni. La Politica degli Autori nasce con la pubblicazione di un articolo apparso su Cahiers du Cinéma nel 1955 scritto da Truffaut intitolato Alì Babà e la politica degli autori. Questo articolo parla del film diretto da Jacques Becker, ma non è solo una recensione di un film, è un vero e proprio manifesto di ciò che sarà la politica degli autori. Ed è significativo che Truffaut scelga di scrivere il suo articolo-manifesto cominciando con la recensione del film Alì Babà, che da molta critica tradizionale era considerato un film minore di Becker: la politique ha come caratteristica principale il principio secondo cui non esistono film minori o film migliori, che "l'opera" di un regista va analizzata complessivamente (che bisogna tener conto anche dei suoi film precedenti o antecedenti) e non a seconda del film. Secondo Truffaut, infatti, "Non ci sono opere, ci sono solo autori". Nella politique il concetto di autore si allarga anche ad alcuni registi commerciali. Infatti ai critici della politica degli autori va attribuito il merito di aver saputo rivalutare, ad esempio, un regista come Alfred Hitchcock, che molta critica coeva tendeva invece a snobbare e sottovalutare. La messa in scena, nella politique, è considerata l'essenza stessa del cinema, cioè come un linguaggio universale da cui è possibile risalire alle caratteristiche del suo autore. Se tali caratteristiche non si individuano, allora la messinscena è incompiuta, quindi "immorale". Secondo Bazin e i critici della Politique la messa in scena è un'organizzazione degli esseri e delle cose che trova in sé il suo significato sia estetico che morale. Il significato morale della messinscena è

quella sincerità assoluta di rivelazione dell'autore, che col cinema esprime sé stesso; il significato estetico è l'estetica della realtà che il cinema possiede, è la capacità di riprodurre una realtà oggettiva. Con la messa in scena, dunque, l'autore esprime sé stesso e quando riesce a riprodurre una realtà oggettiva, l'autore è il cinema (secondo la politique, infatti, ad esempio, Nicholas Ray è il cinema). "Volontarismo dell'amore": la politique richiede che si segua una procedura ben precisa: più visioni dello stesso film a distanza ravvicinata, con discussione finale. Non bisogna semplicemente provare simpatia o amore per una pellicola, ma farsela piacere. Questo concetto poggia sull'idea che una visione multipla di un film (anche di un film considerato minore) porterà certamente lo spettatore a farsi piacere il film. CAHIERS DU CINÉMA I Cahiers du cinéma sono la più prestigiosa rivista cinematografica francese. La rivista esiste ancor oggi. La rivista è stata fondata nell'aprile 1951 da André Bazin, Léonide Keigel, Joseph-Marie Lo Duca e Jacques Doniol-Valcroze e riunì i membri di due circoli cinematografici parigini: Objectif 49 (Robert Bresson, Jean Cocteau, Alexandre Astruc ecc.) e il Ciné-Club du Quartier Latin. Tra i collaboratori figuravano Éric Rohmer, Jacques Rivette, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol e François Truffaut. Gli articoli dei Cahiers reinventarono le basi della critica cinematografica. L'elaborazione della politica degli autori riconobbe per la prima volta il valore dei film hollywoodiani di Alfred Hitchcock, Howard Hawks, Robert Aldrich, Nicholas Ray, Fritz Lang, e Anthony Mann, ma soprattutto di registi come Jean Renoir, Roberto Rossellini, Kenji Mizoguchi, Max Ophüls e Jean Cocteau, in polemica con il cinema francese del periodo. L'articolo di Truffaut Su una certa tendenza del cinema francese (1954) è considerato il manifesto del movimento cinematografico originato dagli ex-redattori dei Cahiers passati alla regia, detto Nouvelle Vague. NOUVELLE VAGUE La Nouvelle Vague è un movimento cinematografico francese nato sul finire degli anni ‘50 del ‘900. L’espressione Nouvelle Vague (in italiano significa “Nuova Onda”), fa riferimento ai nuovi film distribuiti a partire dal 1958 e in particolare a quelli presentati al festival di Cannes l'anno successivo. I primi registi a riconoscersi nel movimento sono François Truffaut, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Claude Chabrol e Éric Rohmer,

Sul finire degli anni ‘50 la Francia vive tra i sussulti della Guerra Fredda e della Guerra d’Algeria, per cui i film erano diventati mezzi attraverso i quali rifondare una sorta di morale nazionale, i cui dialoghi e personaggi erano spesso frutto di idealizzazione. La tendenza idealistica e moralizzante facevano di questo cinema qualcosa di totalmente distaccato dalla realtà quotidiana delle strade francesi. Fuori dalle finestre c'era una nuova generazione che stava cambiando e che esigeva un cinema in grado di rispecchiare fedelmente questo nuovo modo di vivere. La Nouvelle Vague è il primo movimento cinematografico a testimoniare in tempo reale l'immediatezza del divenire, la realtà in cui esso stesso prende vita. I film che ne fanno parte sono girati con mezzi di fortuna, nelle strade, in appartamenti, ma proprio per la loro singolarità, hanno la sincerità di un diario intimo di una generazione nuova, disinvolta, inquieta. Lo scopo cinematografico della Nouvelle Vague era catturare "lo splendore del vero", come disse Jean-Luc Godard nel periodo di critico ai "Cahiers du Cinéma". A tale scopo nella realizzazione delle pellicole veniva eliminato ogni sorta di artificio che potesse compromettere la realtà: niente proiettori, niente costose attrezzature, niente complesse scenografie; i film vengono girati alla luce naturale del giorno, per strada o negli appartamenti degli stessi registi, con attori poco noti, se non addirittura amici del regista, e le riprese vengono effettuate con una camera a mano, accompagnata da una troupe tecnica essenziale costituita per lo più da conoscenti.

SU TRE FILM E UNA CERTA SCUOLA di ERICH ROHMER apparso sul numero 26 dei Cahiers du cinéma, agosto-settembre 1953

Bisogna essere assolutamente moderni. Arthur Rimbaud Per Erich Rohmer il cinema dev’essere in grado di rappresentare quanto di più attuale c’è, non concepisce più l’idea di un neoclassicismo, perché lo scopo dell’arte (di finzione) è quello di andare verso la verità: bisogna essere assolutamente moderni, per dirla con Rimbaud, ma a differenza del poeta maledetto, Rohmer non crede che esista un prima e un dopo dell’azione. A dimostrazione di ciò, alcuni film sono abbastanza fuori dal loro tempo per non passare di moda, ma proprio di esso esprimono meglio il malessere e le

speranze: sanno denunciare ciò ancora non ha preso forma senza attardarsi nella satira di ciò che non esiste più. Secondo Rohmer l’impiego dei mezzi più diretti e più efficaci sui nostri nervi è riservato ai maggiori cineasti, mentre il ricorso all’illusione e all’ellissi crea solo aridità e povertà. Rohmer è rimasto fortemente colpito non tanto per lo stile che hanno in comune, ma dall’identità che sviluppano 3 film: La carrozza d’oro (Renoir), Europa ‘51 (Rossellini), Io confesso (Hitchcock). Per Rohmer tutti e 3 questi film sfidano lo spirito e l'inerzia della materia sociale. La solitudine che ci rivelano è quella dell'essere eccezionale, a volte reso tale dalle circostanze, la solitudine del genio, non del fallito. Dopo che il cinema è stato ritenuto degno della denominazione di arte, Rohmer crede che esso si sia proposto di sviluppare un solo grande tema: l’opposizione di 2 ordini: naturale/umano, materiale/spirituale, meccanico/libero, desiderio/eroismo. Si tratta di una contrapposizione tutta classica, ma il privilegio dell’arte cinematografica è quello di darne una traduzione così diretta che al tramite del segno si sostituisce l’immediato dell’evidenza. Cioè, il cinema - a differenza di altre arti - non si limita a indicare, ma mostra. Mostra il rapporto evidente che l’uomo ha con la natura e con gli oggetti, il rapporto dell’uomo con la società. In La carrozza d’oro non si tratta tanto di denunciare l’ordine in quanto tale, ma di smascherarne le contraddizioni perché se è vero che l’arte è morale, lo è proprio perché esalta l’eccezione che solo la regola rende possibile, così come esalta le diseguaglianze di ognuno di fronte al destino o alla salvezza. In Europa ‘51 Rossellini ha mostrato una giustizia più ingiusta dell’ingiustizia, poiché restituisce a ognuno solo ciò che non gli appartiene: non c’è forse persino nella freddezza, nella meschinità dei gesti e della cortesia moderna, l’eco di un disordine dello spirito, troppo ansioso di liberarsi da forme suggerite dalla natura? Rohmer ha sempre ammirato in Hichcock quella suspence sempre superata da un interesse altro, cioè da un’attesa, non tanto dell’evento quanto delle sue ripercussioni. L’unico “rimprovero” che Rohmer fa ad Hitchcock è quello di farci interessare più alla situazione che al personaggio stesso, più a una condizione che a un carattere. AMARE FRITZ LANG di François Truffaut Apparso sul numero 31 dei Cahiers du cinéma, gennaio 1954

Nel dicembre del 1953 è uscito il film «Il grande caldo» (The Big Heat) di Fritz Lang, tratto dal libro di William P. McGivern. Il romanzo di McGivern si rivela molto inferiore rispetto al film, essendo quest’ultimo più credibile. Per Truffaut Il grande caldo è la riproduzione precisa in chiave thriller di Rancho Notorius. Truffaut lo considera un bel film e ritiene che Fritz Lang – cineasta quasi balzachiano – dà a Gloria Grahame la sua grande occasione. L’aspra recitazione della Grahame è perfetta per tutto il film. La storia narrata è tanto bella quanto semplice, la violenza è come sempre estrema. Rivedendo l’opera di Lang, si rimane sorpresi da quanto c’era di hollywoodiano nei suoi film tedeschi e da quanto egli abbia voluto conservare nei suoi film americani (prospettive, scenografie). Sia i temi che le storie di Fritz Lang, per arrivare fino a noi, prendono in prestito la banale apparenza di un thriller fatto in serie, di un film di guerra o di un western: è questo il comun denominatore in cui dovremmo vedere il segno della grande serietà di un cinema che non avverte la necessità di ornarsi di etichette invitanti. Perciò, secondo Truffaut, bisogna amare Fritz Lang. La solitudine morale, l’uomo che conduce da solo una lotta contro un universo ostile e indifferente: questi sono i temi preferiti di Lang. Persino gli stessi titoli dei suoi film testimoniano la fedeltà a questo argomento: M, il mostro di Düsseldorf; Furia; Sono innocente!; Duello mortale, ecc... Un uomo s’impegna in una lotta per dovere – se è un polizotto, un soldato o uno studioso – oppure per noia. Arriva sempre il momento in cui è stanco di lottare, in cui la causa per cui lotta mostra un’incrinatura. È sul punto di abbandonare l’impresa quando un evento gli fa riprendere il duello, spingendolo fino al sacrificio di sé. Questo evento è quasi sempre la morte di qualcuno, estraneo a tutto ciò, spesso una donna, una donna amata in qualche caso (Joan Bennett in Duello mortale, la vecchia signora di Maschere e pugnali, la fidanzata di Kennedy in Rancho Notorius, Jocelyn Brando nel Grande caldo). È allora che il conflitto diventa estremamente individuale, che ragioni personali si sostituiscono a quelle sociali o politiche, che l’unico pensiero della vendetta si sostituisce a quello iniziale del dovere (Walter Pidgeon, in Duello mortale, se ne infischia della barbarie nazista. Hitler ha ucciso Joan Bennett). Nel gioco di Lang con le convenzioni tutto s’intreccia nel cuore di un universo altamente morale, dove la morale convenzionale non ha alcun peso e le forze in quanto tali (polizia, esercito, resistenza) ci vengono mostrate quasi sempre volgari, manchevoli e vili. Gli eroi di Lang sono marginali alla società, ecco perché lo spionaggio ha nei suoi film una parte così importante. L’eroe non è altro che il giustiziere di sé stesso, che

non difende né i deboli né gli oppressi, che non rivendica niente, ma vendica solo una vittima per film; solo gli esseri eccezionali interessano Lang, eccezioni che per pudore rivestono le umili sembianze di entraineuse (= ragazza che lavora in locali notturni, intrattiene gli uomini con lo scopo di indurli a bere), di una spia, di un poliziotto o di un rozzo cowboy. ALÌ BABÀ E LA «POLITICA DEGLI AUTORI» di François Truffaut Apparso sul numero 44 dei Cahiers du cinéma, febbraio 1955 Alla prima visione, Alì Babà ha deluso Truffaut, alla seconda l’ha annoiato, alla terza l’ha appassionato ed incantato, con la sua influenza affascinante. Truffaut dichiara che rivedrà ancora Alì Babà e sa già che quando lo farà, questo film avrà un posto speciale nel suo “museo privato”, cioè che lo amerà. Non è che rivedendo Alì Babà si capiscano o si scoprano più cose (come avviene in Carrozza d’oro e in Gli uomini preferiscono le bionde), ma come nei musical (Cantando sotto la pioggia o Un americano a Parigi) l’ultimo film di Becker dev’essere conosciuto bene per essere apprezzato. Bisogna aver oltrepassato lo stadio della sorpresa, bisogna conoscere la struttura del film perché svanisca la sensazione di squilibrio avvertita all’inizio. C’è una scena in cui Fernandel, dopo aver recuperato il suo pappagallo fuggito nella caverna e averlo rimesso in gabbia, riparte camminando prima molto in fretta e poi, bruscamente, in modo maestoso, con passo leggero e felpato. Questa incrinatura di ritmo, questa rottura del movimento, sottolineata abbastanza bene dall’interruzione nella musica e dalla sua ripresa su un tempo più lento, inducono immancabilmente al riso senza che la sceneggiatura intervenga, senza che si possa parlare propriamente di gag. Questi istanti sembrano restituirci qualche dettaglio appartenente al miglior film di Jacques Becker: Casco d’oro. In Alì Babà, Jacques Becker ha scelto la commedia buffa in un Oriente da Canebière, perché gli attori sono quasi tutti marsigliesi (La Canebière è un quartiere di Marsiglia). Alì Babà termina in un inseguimento con battaglia. Questa scena straordinaria imprime al film un ritmo scapigliato. Fernandel ha uno stile di recitazione che è perfettamente azzeccato alla regia: le sue smorfie, come le inquadrature, si concatenano splendidamente. Secondo Truffaut i 3 elementi che impediscono la riuscita completa del film sono: la sceneggiatura debole, poco rigogliosa, la musica e il Vilbert. Anche se Alì Babà fosse mal riuscito, Truffaut l’avrebbe difeso ugualmente in virtù della

«politica degli autori», tutta basata sulla frase di Girardoux: «Non ci sono opere, ci sono solo autori», essa consiste nel negare l’assioma, caro ai predecessori di Truffaut, secondo cui vale per i film quello che vale per le maionesi, o vengono bene o vengono male. Dunque, Alì Babà, debutto di Becker nel cinema a colori, è il film di un autore , un autore giunto a una maestria eccezionale, un autore di film. La riuscita tecnica di Alì Babà conferma che la politica degli autori è fondata. ABEL GANCE, DISORDINE E GENIO di François Truffaut Apparso sul numero 47 dei Cahiers du cinéma, maggio 1955 Truffaut afferma che è passato il tempo della critica «alla Zanuck». La critica alla Zanuck è parziale e subdolamente polemica, consiste nel separare le cose buone dalle cattive, non si limita a giudicare ma fa uso di commenti professorali (può far meglio, dovrebbe impegnarsi di più, ecc...). La critica alla Zanuck si oppone alla politica degli autori. A Gance hanno dato del “fallito” e in tempi recenti del “fallito geniale”. Ora bisogna stabilire se si può essere al tempo stesso falliti e geniali. A tal proposito, Truffaut crede che il fallimento sia il talento. Riuscire è fallire. Vuole difendere Abel Gance in quanto autore fallito di film falliti. Per Truffaut non c’è un solo grande cineasta che non sia disposto a sacrificare qualcosa; Renoir sacrifica tutto (sceneggiatura, dialoghi, tecnica) a vantaggio di una miglior recitazione dell’attore, Hitchcock sacrifica la verosimiglianza poliziesca a vantaggio di una situazione predeterminata, Rossellini sacrifica i raccordi di movimento e di luce per una maggior freschezza degli interpreti. Lang sacrifica il realismo dell’ambiente e dell’atmosfera, Nicholas Ray la sobrietà. Il film riuscito, secondo i nostri predecessori, è quello in cui tutti gli elementi partecipano ugualmente di un tutto “perfetto". Truffaut giudica indecenti sia la perfezione che la riuscita impeccabile, in tal senso ritiene che il film più odioso sia La kermesse eroica. Tutti i grandi film della storia sono “falliti”. A partire dal momento in cui si ammette che il cinem...


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