Etnografia Scuola Plurilingue-S Lelli 2014 Conflitti Identiari E Pratiche Istituzioni PDF

Title Etnografia Scuola Plurilingue-S Lelli 2014 Conflitti Identiari E Pratiche Istituzioni
Author Marco Dante
Course Antropologia
Institution Università degli Studi di Firenze
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Antropologia per esami 24 cfu concorso docentiAntropologia per esami 24 cfu concorso docentiAntropologia per esami 24 cfu concorso docenti...


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Etnografia di una scuola plurilingue: come trasformare le criticità in risorse di Silvia Lelli*

1. I dati e lo spaesamento Pur avendo svolto ricerche in varie scuole, mi concentro in questa sede sull’esperienza etnografica realizzata all’Istituto Professionale SassettiPeruzzi, un caso interessante per uno studio, perché presenta molti elementi comuni a quelli incontrati nelle scuole del territorio toscano, alcuni dei quali però assumono qui dimensioni più evidenti, utili quindi per una riflessione sui problemi e sui possibili percorsi di comprensione e di miglioramento della situazione attuale delle scuole. Entrata nella sede di Firenze dell’Istituto1 nel maggio 2012, per presentare il programma di ricerca etnografica e di osservazione in classe previsto dal progetto COIPRI, ho provato un senso di sorpresa e di spaesamento, molto simile a quello che provano gli insegnanti che vi entrano per la prima volta, come mi è stato poi confermato dalle conversazioni e dalle osservazioni. Un disorientamento dovuto al fatto che in una sola scuola si incrociano, concentrate in un microcosmo, tutte le ‘diversità’ che incontriamo nella società che la ospita: diversità dei paesi di provenienza, di lingue, culture, conoscenze pregresse, abilità, competenze, età, generi, religioni, situazioni socio-economiche delle famiglie e dei ragazzi. È una composizione che rispecchia il tessuto sociale del territorio in cui la scuola è situata e che di quel territorio raccoglie le criticità e i problemi. Qui il Piano di Gestione della Diversità – promosso dalla Regione Toscana - Ufficio Scolastico Regionale, “Per una scuola antirazzista e dell’inclusione” (DGR 530/2008) – di cui COIPRI è uno * In S. Lelli, F. Sacchetti, S. Tirini (a cura di, 2014), Conflitti identitari e pratiche delle istituzioni, Franco Angeli, Milano. Ricerche svolte nel quadro del Progetto COIPRI-Conflitti Identitari e Pratiche delle Istituzioni, Regione Toscana e Università di Firenze, 2011-2013. 1 L’Istituto Sassetti-Peruzzi è organizzato in 3 sedi: Firenze, Scandicci, Sollicciano; ho svolto l’osservazione etnografica nella sede di Firenze che offre 6 Percorsi/Indirizzi: 3 quinquennali (Tecnico Servizi Commerciali, Tecnico Servizi Socio-Sanitari, Tecnico Turistico) e 3 triennali (Operatore ai Servizi di Vendita, Operatore ai Servizi di Promozione e Accoglienza turistica, Operatore Amministrativo-Segretariale).

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degli strumenti attuativi, trova un terreno di eccellenza per la sua applicazione: una scuola ampia e complessa, nella quale lavorano più di 50 insegnanti, frequentata da circa 500 allievi e allieve di cui circa l’81% cinesi2 – con percorsi e livelli linguistici estremamente diversi tra loro – oltre ad allievi/e di molte altre provenienze e condizioni. Tale percentuale, in base ai criteri espressi nei Protocolli di Accoglienza dell’Istituto 3, viene distribuita nelle classi, alcune delle quali risultano composte da studenti cinesi in varie percentuali, anche fino al 100%. Il problema è che, come affermano i dati forniti dal Cospe che ha effettuato i test di lingua italiana L2 sui ragazzi cinesi che frequentano la scuola da almeno due quadrimestri, circa 140 non parlano o parlano pochissimo l’italiano. Ciò significa statisticamente che le-gli insegnanti si trovano a svolgere il proprio lavoro anche in classi nelle quali nessuno o quasi nessuno parla o capisce l’italiano. Questi dati spiegano il ‘clima’ di spaesamento e forniscono il contesto alla dimensione di disagio e di ansia diffusa sia tra gli insegnanti che tra gli studenti, comune a molte scuole (Tuffanelli e Ianes, 2011), ma che qui assume proporzioni maggiori, arrivando a mettere in crisi gli intenti e la funzione stessa di una scuola. È chiaro che un problema di comunicazione non resta circoscritto alla lingua ma si ripercuote su tutti gli ambiti, dalla didattica, all’apprendimento, alle relazioni. Le incomprensioni tra insegnanti e allievi/e e quelle tra scuola e famiglie avevano indebolito il contratto formativo (Andrich-Miato e Miato, 2007b, pp. 19; 32-52) generando profitti più bassi, ritardo e abbandono, i cui tassi sono deducibili dalla struttura delle classi: da una base di 9 prime, si passa ad 8 seconde e a 5 terze, quarte e quinte. Dunque, sommando il problema linguistico alle note difficoltà incontrate da anni in tutte le scuole italiane, generate da una commistione di inadeguatezza delle politiche, disorganizzazione istituzionale, taglio dei finanziamenti e pregiudizi nei confronti della 2 Dato fornito dall’Istituto relativo all’anno scolastico 2012-13. Per l’anno 2013-14 su 527 iscritti, 225 sono cinesi, 190 italiani e 112 di altre nazionalità. Nelle prime classi, su un totale di 218 iscritti, 130 sono cinesi, 48 italiani e 40 di altre nazionalità. Queste cifre sono senz’altro rappresentative, ma in realtà non possono essere ‘esatte’, perché gli arrivi e gli abbandoni in corso d’anno le rendono continuamente variabili. http://www.sassettiperuzzi.it/fileallegati/bes/documentiBES/Statistica%20alunni%20Sass etti%20Peruzzi%20per%20nazionalit%C3%A0%20a.s.%202013-14.pdf 3 I Protocolli di Accoglienza dei vari anni si trovano sul sito della scuola: http://www.sassettiperuzzi.it/fileallegati/Protocollo%20di%20accoglienza%2020112012.pdf http://www.sassettiperuzzi.it/fileallegati/REVISIONE%20PROT%202012-13.pdf http://www.sassettiperuzzi.it/fileallegati/bes/documentiBES/ProtocolloAccoglienzaSassett iPeruzzi2013-2014.pdf

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popolazione straniera, si ha un quadro abbastanza chiaro della difficoltà della situazione.

2. Iniziative didattiche, strategie cooperative e strumenti inclusivi Ho svolto la ricerca basandomi sull’antropologia dell’educazione, secondo la metodologia dell’etnografia della scuola, effettuando l’osservazione direttamente nelle classi durante le lezioni (Lelli, 2011), in varie materie, in periodi diversi dell’anno. La maggior parte delle insegnanti si trova davanti ad una serie di scelte che sembrano doversi escludere l’una con l’altra4 : essere severe o comprensive? Incoraggiare la partecipazione o mantenere l’ordine? Dare priorità alla lingua o alla socializzazione? I ‘piani didattici individualizzati’ non sono forse il contrario dei ‘lavori di gruppo’…? Come, da un lato, applicare metodi adeguati alle situazioni specifiche, diversificate e complesse, attuando piani personalizzati e, dall’altro, finire il programma al più presto di ottenere gli stessi risultati da tutti? Al nostro arrivo nella scuola, uno dei tentativi sperimentali attuato da un gruppo di insegnanti per cercare di gestire la situazione, era stato quello di costituire due prime classi, dette ‘parallele’, in cui distribuire gli allievi cinesi selezionandoli in base ai livelli di abilità e competenze sia in italiano L2, sia in quelle dell’area scientifica, mediante un test d’ingresso. Considerando che era stato impossibile valutare le competenze di area scientifica in persone che non potevano esprimerle in italiano, era stato considerato solo il primo criterio. Una classe era così intenzionalmente composta da ragazzi/e solo cinesi ai livelli di italiano più bassi – ad esclusione di due ragazze con competenze molto elevate, che traducevano agli altri ciò che le/gli insegnanti spiegavano; l’altra classe era composta da ragazzi/e di varie provenienze, cinesi inclusi, con competenze in italiano di vari livelli. L’idea era che la classe di livello linguistico più basso avrebbe avuto, nelle ore di lettere, lezioni di italiano L2, fino a quando non avrebbe raggiunto un livello tale da poter seguire il programma normale. Erano previste anche alcune ore di attività comuni (gite, cinema, attività motoria) tra le due classi, nelle quali però si notava come i ragazzi della classe

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Interrogativi di questo tipo sono molto frequenti tra gli insegnanti, come risulta anche dai percorsi di osservazione e formazione che ho svolto in scuole di tutti i livelli attraverso i Progetti UGUA-DI.

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costituita da nazionalità disomogenee interagissero con chiunque, mentre quelli della classe ‘omogenea’ interagissero solo tra di loro. Questo progetto, frutto dell’ordinaria formazione ricevuta dagli insegnanti, ci è sembrato, innanzitutto, basato su di un malinteso relativo all’apprendimento delle lingue, lontano dall’approccio della linguistica acquisitiva (Ciliberti, 2012; Chini, 2005), dato che non teneva conto del fatto che le lingue si imparano nella pratica, nell’interazione quotidiana con chi le parla, e non in corsi teorici – se non in piccola parte. Concentrare le persone che non parlano italiano in una singola classe, ipoteticamente omogenea per livello linguistico e per provenienza, significava impedirne l’apprendimento spontaneo e fare grandi sforzi come docenti di L2, con risultati insoddisfacenti per tutti, come è stato poi riconosciuto. Il progetto appariva quindi orientato da una logica valutativa, di distinzione per (supposte) omogeneità, basato su di una cultura della didattica trasmissiva e direttivista, svolta in lezioni frontali con la memorizzazione decontestualizzata di vocaboli, coniugazioni, regole. Un tentativo che cercava di gestire configurazioni sociali nuove e complesse con gli stessi mezzi di un paradigma-scuola vecchio, riprodotto dalla formazione istituzionale. L’orientamento verso quest’idea rivela anche un’altra visione dicotomica, che concepisce la ‘didattica’ e la ‘relazione sociale’ come sfere separate. Ma dato che la didattica si pratica solo attraverso una relazione, questa falsa opposizione viene a cadere e vale la pena chiedersi quale possa essere la relazione migliore per attuarla. In un’ottica interdisciplinare che coniughi prospettive cognitiviste, educative e socio-antropologiche vediamo tra l’altro che gli stati emotivi, molto sensibili al contesto, influenzano le capacità relazionali e cognitive (Goleman, 2006), attivando abilità e “intelligenze multiple” (Gardner, 2006), “stili cognitivi” diversi, tutti utilizzabili nei processi di apprendimento (Tuffanelli, 2006). Sappiamo anche, dalla sociolinguistica qualitativa (Giglioli, 1972) e dall’antropologia del linguaggio – che è una scienza sociale, non ‘letteraria’ (Duranti, 2005) – che ‘parlare una lingua’ significa ‘condividere, almeno in parte, una cultura’, cioè provare un senso di vicinanza o di appartenenza, anche parziale, alla comunità che la parla. Questo vuol dire che una persona apprenderà – cioè accoglierà in sé e condividerà – la lingua di un gruppo se e quando avrà desiderio di appartenervi, di comunicare e socializzare con i suoi membri, desiderio che proverà se e quando si sentirà apprezzata e a proprio agio in quel gruppo. Questi ‘fatti linguistici’ che riguardano le appartenenze, cioè le costruzioni identitarie, influiscono sulla motivazione allo studio, che non dipende da fattori isolati – o dagli allievi, o dalle famiglie, o dagli insegnanti, o dall’ambiente – ma da costruzioni

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intersoggettive (Spadaro e Ligorio, 2009). Gli insegnanti sono coinvolti ed artefici dei processi di socializzazione e creare nelle classi contesti relazionali gradevoli non solo è più soddisfacente per tutti, ma è necessario per attivare le potenzialità cognitive e di apprendimento. Costruire relazioni didattiche adeguate alla complessità delle situazioni e delle persone reali può e deve figurare tra le abilità dei docenti (Follieri, 2013)5. Relazione didattica e relazione sociale sono simultaneamente in atto nella pratica e se elaborate come componenti complementari di uno strumento unico, come ad esempio nei modelli di ‘didattica inclusiva’ (Andrich-Miato e Miato, 2007a) o ‘positiva’ (ivi, 2007b), hanno dato buoni esiti in situazioni difficili (Payet, 1997; Ferrari, 1999; Van Zanten, 2003; Sclavi, 2006). L’osservazione nelle classi ha evidenziato che i metodi non centrati sul potere unico dell’insegnante – relativo alla disciplina, alle decisioni, alle scelte, alla valutazione – ma i metodi collaborativi centrati sui diversi stili cognitivi dei ragazzi e dei docenti (Tuffanelli e Ianes, 2011, pp. 172-73) e sulla distribuzione dei poteri (Fele e Paoletti, 2003, pp. 117-21), oltre ad essere inclusivi, semplificano la relazione didattica – e non la complicano, idea tuttora diffusa tra chi non li ha sperimentati: l’insegnante infatti può contare sulla collaborazione attiva di studenti soddisfatti della dignità riconosciutagli, che usano stili cognitivi consoni alle loro personalità, e quindi non sono continuamente da ‘gestire’ e ‘convincere’ – di solito con scarso successo – a stare attenti, fare silenzio, fare i compiti, smettere quello e quell’altro… È necessaria però, nella maggior parte dei casi, una formazione relativa all’applicazione dei metodi cooperativi – a partire dal riconoscimento dei propri stili comunicativi e di insegnamento (Tuffanelli e Ianes, 2011, pp. 61-75; 177-78) – che tuttora non fanno parte della formazione standard, affinché divengano pratiche quotidiane, costituite da piani personalizzati basati sugli stili di apprendimento, all’interno di gruppi-classe collaborativi, passando per piccoli gruppi di lavoro, peer tutoring, peer learning. È utile anche che le ricerche di gruppo e in generale le pratiche cooperative siano supportate dall’uso della LIM6 o di altre tecnologie informatiche e visive, 5

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Non si tratta di un testo metodologico, ma epistolare-autobiografico, che definirei un’etnografia a posteriori, gradevole e interessante, scritta da una docente di lingue che nel lavoro in scuole superiori ha saputo ben mixare le relazioni di potere, umano-sociale e didattica. La LIM (Lavagna Interattiva Multimediale), spesso invocata come ‘soluzione’ dagli insegnanti, è raramente disponibile nelle aule italiane per questioni economiche. Ma come avverte Zambotti (2009), il suo utilizzo non accompagnato da una formazione finalizzata all’uso collettivo e cooperativo, rischia di vederla usata come la vecchia lavagna, riproducendo i modelli dell’insegnamento tradizionale.

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anche quelle più semplici usate quotidianamente dai ragazzi, che ampliano la gamma dei canali comunicativi attraverso i quali le varie modalità cognitive possono essere attivate. Ricerche recenti forniscono preziose indicazioni sull’uso cooperativo delle nuove tecnologie (Zambotti, 2009). Importante è anche l’uso e l’organizzazione degli spazi, per eliminare la frontalità, prodotto – e a sua volta riproduttrice – del direttivismo non dialogico, ed incentivare il coinvolgimento dei ragazzi nella progettazione stessa delle attività didattiche, nella presa di decisioni, nella valutazione delle attività e nell’autovalutazione personale (Andrich-Miato e Miato, 2007b), chiedendo ai ragazzi, una volta stabiliti criteri condivisi, che diano essi stessi un voto al proprio lavoro. Nella mia osservazione alla Sassetti-Peruzzi ho visto applicare l’autovalutazione da un insegnante, con ottimi risultati; nessuno, come nel caso dell’insegnante citato da Ferrari (1999, p. 109), ha mai dato a se stesso una valutazione troppo alta, semmai il contrario. Del resto, valutando male si dimostrerebbe l’incapacità di farlo, si paleserebbe una tendenza all’ingiustizia e si perderebbero posizione, prestigio e diritti. La posizione autorevole pubblica, esposta a regole visibili e alla critica, è responsabilizzante: ne scaturisce un comportamento che non è frutto di un particolare insegnamento o processo pedagogico, bensì pragmatico, frutto di una scelta interazionale con risvolti concreti. Un’altra pratica che ha l’effetto di rendere credibile la relazione didattica è quella di non porre agli allievi domande “fittizie” (Andrich-Miato e Miato, 2007b, p. 33) – quelle delle interrogazioni o dei compiti-quiz, per le quali l’insegnante ha già le risposte – ma domande vere, ‘domande ricerca’ le cui risposte sono da trovare assieme, per le quali l’insegnante accetta, anche criticamente, costrutti diversi da quelli previsti. La logica di questi eventi linguistici è semplice: ‘domande fittizie = collaborazione fittizia’. Proposte come queste, di condivisione o delega di alcuni poteri e saperi, lasciano spesso interdetti gli insegnanti, ma costituiscono pratiche che di fatto responsabilizzano il gruppo-classe, trasformando la struttura della relazione didattica, liberandola dal peso del potere unilaterale, della paura, del ricatto, della coercizione; esse danno vita al patto educativo, lo rendono ‘vero’ e coerente, e per questo credibile. Fondamentale per gli insegnanti è anche praticare un’auto-osservazione, fare gli etnografi della propria classe (Lelli, 2011, pp. 161-63), sviluppando sia un’attenzione sugli effetti delle proprie parole nelle interazioni, sia una riflessione metacognitiva, in modo che essi stessi e i ragazzi acquisiscano consapevolezza dei processi cognitivi in atto (Fedeli e Tanburri, 2003; Andrich-Miato e Miato, 2007b, pp. 25-26): è questa un’importante strategia di empowerment, che accresce l’autoconsapevolezza, l’autoaccettazione,

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l’autostima, l’autoefficacia, la fiducia nel potere del gruppo-classe e nella positività dei successi raggiunti. Tutto questo è effetto di processi cognitivi, non pedagogici o decontestualizzati, collegati al noto fatto che i ragazzi ‘imparano’ quello che vedono agire dagli educatori, più che ciò che viene loro ‘detto di fare’ (ivi, p. 26; Tuffanelli e Ianes, 2011, p. 60-75). Dare ai ragazzi spazi e ruoli decisionali reali, di responsabilità e di autovalutazione implica un vero e proprio ribaltamento delle pratiche e dei poteri tradizionali; gli insegnanti trasformano il loro ruolo acquisendo sempre maggiori competenze di facilitatori, mediatori della conoscenza. Questo spesso preoccupa gli insegnanti, non per una particolare ‘sete di potere’, ma per l’insicurezza che crea il cambiare metodo e cercare di adottarne uno del quale non si ha ancora esperienza. Ciò che può incoraggiare a farlo sono i risultati positivi già sperimentati e un’introduzione graduale nella propria classe, in modo da poterne monitorare personalmente i risultati.

3. Cosa si fa con le parole: posizioni sociali tra cognizione e pragmatica Le metodologie inclusive valgono, naturalmente, non solo per l’apprendimento/insegnamento delle lingue, ma per la didattica in tutte le materie. Voglio però soffermarmi sull’importanza del parlare, attività umana che, soprattutto nella scuola, ha un ruolo fondamentale nella costruzione cognitiva, sociale, culturale e identitaria. Data l’importanza del ruolo, la questione non può essere ridotta ad un ‘problema di comunicazione’. Adotto quindi il concetto di linguaggio combinando vari campi di studio tra loro affini, quali l’antropologia del linguaggio e del parlare quotidiano (Duranti, 2005, 2007), l’antropologia linguistica dell’educazione (Wortham, 2008), la linguistica cognitiva (Arduini e Fabbri, 2013), l’analisi della costruzione verbale delle azioni (Heritage, 2013), delle interazioni (Shedletsky, 2009) e in particolare delle interazioni in classe (Fele e Paoletti, 2003). Il parlare, veicolato ovviamente dalle lingue, elemento costitutivo delle interazioni, è responsabile del collegamento tra pensiero individuale, cultura, saperi e realtà sociale; è la possibilità stessa di pensare e di agire, costruire relazioni, negoziare decisioni, cercare di ottenere ciò che si desidera. È un’attività sociale con molteplici effetti pratici, che ha poco a che fare con i ‘riflessi’ della lingua parlata contenuti nelle grammatiche e nei dizionari. Parlare non implica imparare a memoria vocaboli e forme varie, ma richiede di impararne l’uso nei contesti reali. ‘Apprendere’ le

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lingue e ‘parlarle’ – che non è la stessa cosa – mette in atto moltissime azioni, abilità, condizioni mentali e pratiche; è un’attività estremamente complessa che implica acquisire e utilizzare competenze pragmatiche7 (Bazzanella, 2011), sociopragmatiche (Balboni, 2008), metapragmatiche (Urban, 2006), pragmatico-cognitive (Bianchi, 2009), che nel caso di contesti multilingui divengono questioni ancor più complesse di pragmatica interculturale (Bettoni, 2013; Balboni, 2009). La complessità delle competenze pragmatiche non ci è chiara nemmeno nella nostra prima lingua (L1); si tratta di esigenze sociali, interazionali, difficili da attuare in maniera appropriata anche nelle L1. Capire e parlare una...


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