Fontamara riassunto PDF

Title Fontamara riassunto
Course Letteratura italiana moderna e contemporanea
Institution Università degli Studi di Milano
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Summary

Riassunto a grandi linee del libro Fontamara...


Description

FONTAMARA Prefazione Gli strani avvenimenti che vengono narrati si svolgono a Fontamara, un misero paesino montano della Marsica, negli Abruzzi, abitato da contadini, a nord del prosciugato Lago del Fucino. Fontamara è un paesino arretrato, un accumulo di casette malconce ad eccezione delle case di piccoli proprietari terrieri e di un palazzo cadente e deserto. Su tutti domina la chiesetta col campanile e la piazzetta attraversata dall’unica strada carrabile. Ma questo per i fontamaresi era tutto il loro mondo, dove il tempo era scandito dalle solite cose, l’ingiustizia e la miseria sembravano elementi naturali e nessuno aveva mai pensato che qualcosa potesse cambiare. La società si divideva in due: poveri ( piccoli proprietari e artigiani ) e poverissimi ( i cafoni senza terra ). Sogno dei cafoni era salire questa scala sociale anche a costo di immani sacrifici sopportati in silenzio, ma pronti a riaccendere liti furiose che durano da generazioni non appena c’è una briciola da spartire. Briciola che di solito se ne va per pagare gli avvocati, secondo una vecchia legge di Fontamara per cui i risparmi dei mesi buoni se ne vanno subito in autunno. Il prosciugamento del lago del fucino aveva definitivamente inaridito la montagna e ore si praticava una agricoltura di sopravvivenza. Le terre emerse dal lago erano certo fertilissime, ma appartengono tutte ai principi di Torlonia giunti dalla Francia. I Torlognes si arricchirono speculando, prima col Regno di Napoli, poi con i Savoia e i fontamaresi assistettero a tali soprusi col solito distacco e torpore: era una cosa naturale. Questo fino allo scorso anno, quando accaddero una serie di avvenimenti che sconvolsero Fontamara. Chi vi scrive era diffidente, costretto da anni all’esilio non ero certo che ciò che si udiva corrispondesse alla verità, finché una sera giunsero a casa mia tre fontamaresi, un vecchio, sua moglie e il figlio. Raccontarono per tutta la notte fino all’alba; questo libro è il frutto dei fatti da loro narrati. Due avvertenze. Qui si spazza via l’immagine gioiosa, folcloristica e musicale del meridione d’Italia, i contadini sono vestiti di stracci, la loro terra è arida e non cantano mai, piuttosto bestemmiano per esprimere ogni sentimento, anche religioso, e senza fantasia: sempre gli stessi santi. La seconda avvertenza e che per i fontamaresi l’italiano è una lingua straniera, imparata a scuola e non può che esprimere goffamente il pensiero. Anche questo romanzo è il frutto di una traduzione dal fontamarese all’italiano. Capitolo I° Il primo giugno dello scorso anno fu tolta la luce elettrica a Fontamara. I fontamaresi si riabituarono subito, rassegnati, al chiaro di luna. Per loro la luce elettrica era sempre stata qualcosa di naturale e come tale nessuno la pagava. Persino il cursore comunale, Innocenzo la Legge, non portava più le bollette, visto che l’ultima volta aveva rischiato una schioppettata. I primi ad accorgersi che la luce elettrica fu tolta fummo noi che tornavamo da fuori paese. Per i ragazzi fu motivo di baldoria; per il generale Baldissera, il ciabattino del paese, fu motivo di bestemmie, al buio i ragazzi gli avevano confuso tutti gli attrezzi. Ci fermammo alla cantina di Marietta con altri avventori. Intanto arrivò in bicicletta un forestiero, giovane, elegante, tutti pensammo che fosse lì per una nuova tassa: forse sul chiaro di luna? Ci chiese della vedova dell’Eroe Sorcanera. Marietta era là, incinta, il marito morto in guerra le aveva lasciato una medaglia e una pensione e lei non si era più risposata per non perderla. Quando il forestiero cominciò a parlare si capì che proveniva dalla città, si capiva poco di quello che diceva. A un certo punto disse a me di firmare un foglio in bianco ( ecco la tassa! ), e al mio tentennare e a quello degli altri cafoni andò su tutte le furie. Rassegnato, disse che non ci capivamo: raramente un cittadino e un cafone si capiscono. Allora ci mostrò meglio i fogli accendendo un fiammifero e facendoci notare che erano veramente bianchi e non scritti come quelli delle tasse. C’era solo una breve scritta in alto che diceva che noi avevamo spontaneamente lasciato quelle firme al Cavalier Pelino. Il forestiero ci assicurò che Pelino era lui e che si trattava di una petizione al governo, ci spiegò che finalmente i cafoni venivano rispettati, ma c’era bisogno di molte firme. Impressionati dalle parole iniziammo a firmare e vista l’ora tarda, per non disturbare gli altri fontamaresi, Pelino chiese e ottenne che gli dettassimo noi i loro nomi. A un certo punto Pelino notò qualcosa sul tavolo e gridò dallo schifo, Marietta prese l’insetto, lo esaminò e gettandolo a terra disse che era di una nuova specie. Michele Zompa, colpito dalla notizia, ci ricordò che Dio aveva stabilito che apparisse una nuova specie di pidocchi dopo ogni rivoluzione, ed era turbato perché aveva fatto un sogno, il giorno dopo la predica in cui il curato disse che il papa, fatta pace col governo, avrebbe ottenuto molto per i cafoni, che ora pareva realizzato. Sognò che il papa parlava col crocifisso di cosa dare ai cafoni: Gesù propose di dare loro la terra, ma il

papa rispose che il Principe, buon cristiano, non avrebbe voluto. Allora Gesù propose di abolire le tasse, ma il papa rispose che i governanti, buoni cristiani, non sarebbero stati d’accordo. Allora Gesù disse di mandare un buon raccolto, ma il papa, si mostrò preoccupato per il conseguente ribasso dei prezzi e per gli svantaggi che ciò avrebbe portato ai commercianti, anch’essi buoni cristiani. Il Papa propose allora di visitare il Fucino per farsi venire un’idea; davanti Cristo con la bisaccia e dietro il papa che poteva prendere da essa ciò che serviva ai cafoni. Ma vedendoli litigare e bestemmiare, turbato, prese una manciata di pidocchi di nuova specie e la gettò sulle case dei cafoni perché potessero grattarsi, distogliendosi dal peccato nei momenti di ozio. Pelino, udito il racconto si infuriò perchè pensava che ci stessimo prendendo gioco di lui, che era un’autorità e ci chiese se conoscessimo le gerarchie, parola che dovette spiegarci. Allora Michele spiegò che sopra tutti c’è Dio, padrone del cielo, poi il Principe Torlonia, padrone della terra, poi le guardie del Principe, poi i cani di queste. Poi nulla. Poi nulla. Poi ancora nulla. Poi venivano i cafoni. Il pelino se ne andò infuriato e anche noi tornammo a casa. Nel buio incontrammo Berardo che stava mirando coi sassi i lampioni: tanto le lampade senza la luce non servono più. Capitolo II° Il giorno successivo Fontamara fu in subbuglio perché alcuni cantonieri furono sorpresi mentre deviavano l’unico corso d’acqua che passava dal paese, verso il podere di Don Carlo Magna, un signorotto della zona. Lo chiamavano così perché a chi chiede di lui la serva risponde:”Don Carlo? Magna”. E chiama la moglie che è la vera padrona. Al momento si pensò a uno scherzo come quella volta che col paese a festa per il presunto arrivo del nuovo curato alcuni ragazzi dei paesi vicini ci recapitarono un asino vestito con paramenti sacri; ma stavolta non era così. Visto che gli uomini erano al lavoro, dovettero provvedere alla faccenda le donne; spronate da Marietta misero in fuga i cantonieri e poi si diressero, sotto il sole cocente, al comune del capoluogo dove giunsero a mezzogiorno imbiancate di polvere. All‘arrivo in città, dopo i primi attimi di scompiglio, una guardia campestre e alcuni cittadini iniziarono a schernirle e, giunta l’ora di pranzo le lasciarono sole in piazza col conforto di una fontana che “misteriosamente” smetteva di zampillare non appena le donne si avvicinavano per bere. Giunse un manipolo di carabinieri che chiesero il motivo della presenza delle cafone e spiegata la loro intenzione di parlare al sindaco di una grave ingiustizia, fecero infuriare il maresciallo poichè i sindaci non esistevano più e ora si chiamavano podestà. I carabinieri le accompagnarono alla casa del nuovo podestà, un ricco romano da tutti conosciuto come l’Impresario, che aveva fatto soldi speculando sui prodotti di quelle terre appoggiato da una banca. Giunti alla villa furono accolte sgarbatamente dalla moglie dell’Impresario, impegnata nella festa per la nuova nomina del marito, che le spedì allora alla fabbrica di mattoni dove alcuni operai dissero che l’Impresario non era più lì e che comunque era inutile cercare di trattare col “diavolo”. Esasperate dalla stanchezza alcune litigarono sul da farsi, ma Marietta prese in mano la situazione e si diressero verso la casa di Don Carlo Magna. Furono accolte dalla moglie, Donna Clorinda, detta il corvo, perché era sempre vestita di nero, e questa spiegò loro che le terre dove si voleva dirigere l’acqua erano diventate dell’Impresario, un furfante che “ ci avrebbe mangiati vivi”. Decisero allora di tornare alla villa dell’Impresario e lo aspettarono sedute davanti al cancello. Mentre all’interno i notabili del paese facevano festa arrivò l’Impresario, vestito da lavoro, discutendo con alcuni operai e, viste le donne, scambiò con loro alcune battute sgarbate e si avviò dentro casa. Dal balcone l’avvocato Don Circostanza chiese cosa succedeva e le donne lo spiegarono. Don Circostanza, protettore e rovina dei Fontamaresi: tutte le loro liti (e i loro soldi ) finivano nelle sue mani, insegnò a tutti gli analfabeti a scrivere il suo nome perché potessero votare solo per lui, e “manteneva in vita” i defunti fontamaresi per lo stesso motivo imboscandosi i loro certificati di morte. L’interessamento dell’avvocato rincuorò le donne, ma quando videro che gli invitati stavano per andarsene, si infuriarono e sbarrarono il cancello; nel parapiglia generale giunse l’Impresario e con calma le fece accomodare nel giardino. Le donne spiegarono la faccenda dell’acqua, ma l’Impresario chiamò il Segretario comunale che, ubriaco e tremante, spiegò mostrando dei fogli ( quelli fatti firmare dal Cavalier Pelino )che non c’era ingiustizia essendoci una petizione firmata da tutti i loro mariti, che affermava che “nell’interesse superiore della produzione l’acqua doveva essere deviata dall’arida Fontamara al capoluogo”. Imbestialite dalla truffa, le donne minacciarono di mandare a fuoco la villa. Allora Don Circostanza ristabilì la calma prendendo le loro difese contro i notabili e alla fine dell’intervento alcune donne gli baciarono le mani commosse. Allora propose che, avendo i fontamaresi bisogno di più della metà dell’acqua del ruscello, tre quarti di essa rimanesse a loro e tre quarti andasse all’Impresario, così tutti ne

avrebbero più della metà e fece preparare subito un documento che lo attestava. Alcune donne erano diffidenti, ma il foglio venne firmato dall’Impresario e dall’avvocato Don Circostanza in qualità di rappresentante del popolo. Le donne tornarono a casa, alcune dubbiose, ma soddisfatte, perché era stato tutto gratis. Capitolo III° Iniziarono i lavori dei cantonieri scortati dalle guardie e in paese non si parlava d’altro. Il più stizzito sembrava Baldissera, il ciabattino. Brontolone, il più povero del paese, soffriva la fame, ma non voleva darlo a vedere e la domenica si allontanava dal paese per poi tornare fingendosi sazio e ubriaco e raccontava di fantastiche liti con personaggi importanti. Era tutto inventato, ma i compaesani non volevano togliergli questa sua unica soddisfazione. Una sera arrivò per la questione dell’acqua anche Don Abbacchio, il curato, per avvertirci di non affrontare di nuovo quel diavolo dell’Impresario. La questione dell’acqua per i fontamaresi era da sempre preminente e non esitavano a zuffarsi per questo e spesso per sedare le risse, dovettero intervenire le guardie e Berardo Viola a fare da paciere. Berardo Viola era il ragazzo più forte e rispettato dal paese, il nonno era stato l’ultimo grande brigante della zona, morto impiccato, e il padre aveva lasciato a Berardo un buon pezzo di terra, ma lui l’aveva venduta a Don Circostanza per andarsene in America dopo una lite. Berardo era intervenuto per sedare una rissa in cui era coinvolto un amico, ma questo per discolparsi aveva denunciato Berardo ai carabinieri. Allora Berardo per l’offesa pensò di emigrare e vendette la terra, pagò quelli che aveva picchiato e comprò il biglietto, ma una nuova legge contro l’immigrazione lo bloccò in patria. Dopo i tentativi della madre Maria Rosa per convincere don Circostanza a restituire la terra, esasperato provò Berardo e don Circostanza terrorizzato gli vendette un pezzo di terreno ai piedi del monte. Berardo lavorò il doppio per dissodare la terra e ripagare il debito, ma dopo la prima semina piovve per due mesi e una frana distrusse tutto il campo lasciando solo una specie di cratere. Berardo era il leader dei giovani del paese, insegnava loro che era inutile discutere con le autorità cittadine, altrimenti si aveva sempre torto, predicava la disobbedienza civile contro i signorotti del luogo, compiva ripetuti atti vandalici contro i paesi limitrofi che schernivano i fontamaresi; si riuniva coi ragazzi dietro la chiesa o in una stalla in una specie di congrega di giovani chiamata il Circolo Vizioso. Berardo amava Elvira, la ragazza più bella del paese ed è ricambiato, ma non la chiede in moglie perchè si vergognava di non avere un pezzo di terra. Quando si sparse la voce che il cantoniere Filippo il Bello la chiedeva in sposa, lo cercò e lo riempì di botte; da quel giorno nessuno osò più farle proposte. Un giorno Maria Rosa e la donna che racconta gli avvenimenti ( una dei tre fontamaresi che stanno raccontando a Silone, vedi prefazione ), zia di Elvira, vanno a casa della ragazza per saggiare le sue intenzioni, la trovano a curare il padre infermo, la ragazza si mostra umile, ma molto decisa con Berardo. Intanto Berardo vuole recarsi a Roma in cerca di lavoro, ma scopre che ci vuole “la tessera”: è scoppiata la guerra. Il giorno dopo arrivò Innocenzo La Legge timoroso come al solito, portando due nuovi ordini del podestà vista la guerra: il primo imponeva il coprifuoco e i fontamaresi si preoccuparono per l’irrigazione notturna e perché sarebbero arrivati tardi ai campi non potendo uscire prima dell’alba. Innocenzo la Legge disse che non avevamo capito, lui doveva comunicarlo, ma i cafoni potevano fare ciò che volevano. Il secondo ordine vietava di parlare nei locali pubblici di politica, siccome l’unico locale era quello di Marietta, lei intervenne dicendo che nel suo locale non si era mai parlato di politica, ma solo di leggi, tasse prezzi. Innocenzo la Legge disse che era proprio di quello che non si doveva parlare. Berardo allora concluse che non si poteva più ragionare e raccolse il consenso di Innocenzo e lo convinse a riscrivere il cartello così: “ Per ordine del Podestà sono proibiti tutti i ragionamenti”. Berardo stesso appese il cartello e minacciò chiunque lo avesse toccato, Innocenzo la Legge avrebbe voluto abbracciarlo, ma fu frenato dalle sue spiegazioni. Berardo aveva sempre sostenuto che coi padroni non si ragiona, perciò era d’accordo col podestà; il cafone era per Berardo un asino che ragiona, per questo poteva essere ingannato, invece un asino non ragiona, non porterà mai un peso più grosso di quello che ha deciso di portare, o di lavorare a digiuno. Innocenzo la Legge era atterrito e lo fu ancora di più quando Berardo gli chiese cosa poteva impedire di accopparlo lungo la strada del ritorno, visto che neanche il ragionamento sulle conseguenze dell’assassinio avrebbe ora potuto impedirlo. Innocenzo la Legge, terrorizzato, rimase a dormire da Marietta, come altre volte. Capitolo IV° Alla fine di giugno Berardo portò la notizia che i cafoni sarebbero stati convocati ad Avezzano per le comunicazioni del nuovo governo sulle terre del Fucino. Tutti erano speranzosi nel

fatto che la terra venisse divisa fra chi la coltivava. Un mattino giunse un camion a prendere i cafoni; il conducente chiese dove fosse la bandiera e i fontamaresi andarono in chiesa a prendere lo stendardo di S. Rocco. Giunti al primo paese il conducente ordinò di cantare l’inno, ma i fontamaresi non sapevano di cosa si trattasse, allora il conducente spiegò che quelli erano gli ordini: al passaggio da ogni centro abitato dovevano cantare l’inno e dare segni di entusiasmo. Intanto si erano incolonnati con altri carri e camion pieni di cafoni diretti ad Avezzano; alla vista dello stendardo di S.Rocco ci furono risate e scherni: tutti i carri portavano bandiere nere con un teschio bianco. Giunse al camion don Abbacchio con alcuni carabinieri, i fontamaresi pensavano che volesse difendere S.Rocco, ma urlò se fosse carnevale, e se volessero compromettere i rapporti fra chiesa e stato e cosi ripiegarono lo stendardo. Furono condotti in piazza e fu loro assegnato un posto all’ombra; cominciarono a giungere le autorità, il podestà, il ministro ecc, e fu ordinato a tutti di gridare “ viva il podestà e gli amministratori onesti”. Poi gli fu ordinato di mangiare quello che avevano nella bisaccia, ma tutti si chiedevano quando si sarebbe parlato della terra. Ma verso le due la scena si ripetè al contrario: le autorità lasciavano il capoluogo. Sbigottito, Berardo ordinò ai fontamaresi di seguirlo al palazzo, ma giunti furono fermati dalle guardie e scoppiò un tafferuglio che fu sedato dall’intervento di don Circostanza che li difese. L’avvocato li fece accompagnare nel palazzo dove un impiegato con un falso sorriso spiegò che la questione del Fucino era stata discussa dal Ministro e dal rappresentante dei cafoni, il Cav. Pelino, e si era deciso che la terra sarebbe stata per chi aveva i mezzi ( soldi ) per coltivarla. Avviliti i fontamaresi lasciarono il palazzo e si diressero al camion fra gli scherni di cittadini ubriachi, ma il camion era già partito; la cosa li lasciò indifferenti. Intanto giunse un signore con baffi e capelli rossi e, invitati in un’osteria spiegò loro che avevano ragione di protestare e che dovevano fare un’azione contro il governo, disse quindi di aspettarlo nell’osteria perchè avrebbe portato loro il necessario. Quando fu lontano si avvicinò ai fontamaresi un ragazzo che li avvisò che quello era un poliziotto, un provocatore che avrebbe portato loro dell’esplosivo per farli incolpare. Scapparono per i campi e il ragazzo li seguì parlando di cose incomprensibili, finchè Berardo, infastidito, lo gettò in un fosso. Giunsero a casa a mezzanotte, alle tre erano già svegli per la mietitura. Capitolo V° L’impresario fece costruire una staccionata attorno al tratturo ( sentiero per le greggi ) di cui si era impossessato, ma una notte esso bruciò. Fu ricostruita a spese del comune e fu messo uno spazzino di guardia, ma bruciò di nuovo; don Abbacchio disse che era opera del demonio, e l’Impresario, non potendo arrestare il demonio, fece arrestare lo spazzino. Una sera, prima del ritorno degli uomini, giunsero a Fontamara alcuni camion e arrivati alla piazza dove si erano radunate le donne, cominciarono a sparare contro la chiesa. Terrorizzate, scappavano, pregavano, e riconobbero in quegli uomini con le camice nere altri cafoni della zona, oltre alla guardia campestre Filippo il Bello, gente senza scrupoli, pronti a servire i ricchi per propri vantaggi; poveri, ma nemici dei poveri. Prima si accanirono contro Teofilo, poi il capo ordino di frugare nelle case e sequestrare le armi prima dell’arrivo degli uomini; si sentivano grida, rumori di mobili rovesciati; si capì subito dopo di quali “armi” erano in cerca: molte donne vennero violentate a turno. Intanto a gruppi giunsero gli uomini dai campi e vennero chiusi, sbigottiti e confusi, nella piazza, in un quadrato di militi. Il capo del manipolo di fascisti, un tipo piccolo e tarchiatello, disse che era l’ora dell’esame, nessuno sapeva di cosa si trattasse. Ad uno ad uno i cafoni venivano interpellati con la domanda: “Viva Chi?”, confusi chi rispondeva “viva s.Rocco”, “viva la Madonna”, “viva il pane e il vino” ecc. e fra le risa delle camice nere venivano schedati chi come refrattario, chi come comunista ecc. A un certo punto comparve la madre di Berardo urlando e chiedendo al figlio se sapeva cosa avessero fatto alle loro donne. Berardo capì subito, prese per il bavero Filippo il Bello, gli sputò in faccia e chiese cosa avesse fatto a Elvira. In quell’istante un rintocco di campana fece voltare tutti verso il campanile e videro la una donna alta e pallida. Filippo il Bello gridò che era la madonna, tutti ne vennero contagiati, presero i loro camion e se ne anda...


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