La repressione criminale PDF

Title La repressione criminale
Course Storia del diritto romano
Institution Università degli Studi di Napoli Federico II
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RIASSUNTO TERZA PARTE ...


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LA REPRESSIONE CRIMINALE REPRESSIONE CRIMINALE E PAX DEORUM IN ETA’ ARCAICA Nel periodo arcaico non sarebbe corretto parlare di “diritto criminale”, in quanto non esisteva ancora una forte differenza tra le varie sfumature di diritto. Tuttavia, è bene precisare che in questo periodo il “ius” non si distingueva dal “fas”, cioè dal fenomeno religioso. Secondo le fonti, infatti, con “diritto criminale” in questo periodo si intendono reazioni che la comunità riconnetteva a violazioni di regole religiose. L’ obiettivo principale era il mantenimento della “PAX DEORUM”, ovvero il buon rapporto tra l’uomo e la divinità: infatti, anticamente offendere gli dèi sarebbe andato a svantaggio non solo del singolo soggetto, ma dell’intera comunità. A tal proposito, nacquero delle leggi, le “leges regiae”, alla cui violazione la comunità reagisce cercando di ristabilire la “pax deorum”, guidata in questo dal proprio re. CLASSIFICAZIONE DEGLI SCELERA E PENE SACRALI Gli studiosi moderni hanno portato alla luce una classificazione dei comportamenti sanzionabili, in quanto lesivi della pax deorum. Si distingue tra “SCELERA EXPIABILIA”, i misfatti che potevano essere espiati: si pensi ad esempio al divieto sancito per le concubine di toccare l’ara di Giunone. La violazione di tale divieto era sanzionato con l’obbligo per la colpevole di sacrificare un’agnella alla divinità offesa; e “SCELERA INEXPIABILIA”, che non potevano essere espiati. Nel primo caso, il trasagressore era tenuto ad un semplice sacrificio (PIACULUM) di animali o economico nei confronti della divinità; nel secondo caso, il PIACULUM non era sufficiente e il trasgressore doveva compensare con la propria persona nei confronti della divinità. La pena poteva consistere nella consacrazione del colpevole ed eventualmente del suo patrimonio alla divinità (CONSECRATIO CAPITIS, CONSECRAZIO CAPITIS ET BONORUM) , oppure la condanna a morte con un sacrificio rituale (DEO NECARI). L’uomo che subisce la “consecratio” viene definito “HOMO SACER”: perdeva ogni protezione da parte della comunità, e pertanto poteva essere ucciso impunemente da qualsiasi cittadino romano (sembra anzi che vi fosse il dovere giuridico di metterlo a morte). Invece, l’uomo che viene condannato a morte, viene sacrificato con un rito variabile in base al crimine. Così. Ad esempio, per chi avesse ucciso il proprio padre, era prevista la “POENA CULLEI” (pena del sacco), consisteva nel gettare il colpevole nel fiume o in mare, chiuso in un sacco nero assieme ad alcuni animali simbolici (scimmia,cane, vipera, gallo). La “perduellio” era un reato consistente nell’attentato contro la comunità politica, l”alto tradimento”. Per tale reato, era prevista la pena della “suspensio all’arbor infelix”, ovvero l’impiccagione seguita dalla fustigazione.

LA REPRESSIONE DELL’OMICIDIO Uno dei crimini particolarmente importanti fu l’OMICIDIO. Secondo le fonti, si faceva distinzione tra OMICIDIO VOLONTARIO commesso con dolo e OMICIDIO COLPOSO, ovvero non volontario. Nel primo caso, ci si rifaceva all’esercizio della vendetta, imponendo al gruppo familiare dell’ucciso di uccidere a sua volta l’omicida; nella seconda ipotesi, l’omicida era tenuto a sacrificare un ariete ai familiari dell’ucciso, dinanzi al popolo. Queste notizie ci fanno capire come già in età arcaica si facesse una differenza tra omicidio volontario, per il quale era prevista una pena maggiore, e omicidio colposo. Tutto questo implicava la necessità di accertamento: in un primo momento era il re ad occuparsene, mentre successivamente il compito passò ad ausiliari del sovrano, i “QUAESTORES PARICIDII”. LA REPRESSIONE CRIMINALE IN ETA’ REPUBBLICANA: CENTRALITA’ DELLA PROVOCATIO AD POPULUM Il passaggio dalla monarchia alla repubblica (509 a.C) fu caratterizzato da limitazioni imposte ai magistrati nel campo della repressione criminale. Una “LEX VALERIA DE PROVOCATIONE”, votata dai comizi centuriati su proposta dael console Valerio Publicola nel 509, dispose che nessun magistrato avrebbe potuto far fustigare o condannare a morte un cittadino romano che avesse effettuato l’appello al popolo (provocatio ad populum). Tuttavia, secondo gli studiosi tale notizia può essere posta in dubbio, anche grazie al ritrovamento di altre 2 leggi al proposito: una prima “LEX VALERIA HORATIA”, votata nel 449, avrebbe vietato la creazione di magistrature esenti dalla provocatio; una terza “LEX VALERIA HORATIA” del 300 avrebbe ripreso il contenuto della prima, qualificando allo stesso tempo “IMPROBE FACTUM” (azione degna di riprovazione) il comportamento del magistrato che avesse condannato a morte un cittadino senza prima concedergli l’appello al popolo. Secondo alcuni studiosi, la PROVOCATIO AD POPULUM fu concessa ai patrizi nella lotta contri i plebei, in quanto questi ultimi potevano già contare sull’appoggio dei tribuni. Solo con l’equiparazione tra i due ordini, la PROVOCATIO AD POPULUM divenne un mezzo di tutela per tutti i cittadini. La provocatio poteva essere esercitata anche in caso di multe che superassero un ammontare di 30 buoi e 2 pecore, ovvero 3020 assi. Va aggiunto anche il fatto che la provocatio inizialmente non poteva essere esercitata nelle province e nel campo militare. Una modifica a questo sistema fu costituita da 3 “LEGES PORCIAE”: la prima implicava l’uso della provocatio anche contro la sola fustigazione(non accompagnata dalla condanna a morte); la seconda estendeva la provocatio anche nelle province e a favore dei militari contro i propri comandanti; la terza,infine, prevedeva la pena di morte per quei magistrati che non si fossero attenuti alle disposizioni sulla stessa “provocatio ad populum”. La provocatio ad populum era opposta al cattivo esercizio dell’imperium del magistrato, o meglio a una particolare funzione dell’imperium stesso, la “coercitio”, con la quale il magistrato poteva punire senza processo chiunque si opponesse a un ordine dello stesso magistrato o gli impedisse l’esercizio delle funzioni. Dunque, la Provocatio si poneva come un opposizione a un atto coercitivo del magistrato, con la conseguente richiesta di processo dinanzi al popolo, ovvero dinanzi ai comizi.

LA PROCEDURA INNANZI ALLE ASSEMBLEE POPOLARI Il processo comiziale aveva inizio dunque se il cittadino, contro cui il magistrato minacciava l’esercizio della coercitio, si fosse opposto con la provocatio ad populum, ossia richiedendo di essere giudicato dall’assemblea popolare. Con la promulgazione della LEX VALERIA HORATIA del 300 a.C., i magistrati non procedevano più direttamente all’esercizio della coercitio , ma rinviavano la questione ai comizi competenti. L’accusa dinanzi ai comizio centuriati non era proposta personalmente dai consoli ma da ausiliri di questi, i QUAESTORES PARRICIDII. Il magistrato che proponeva l’accusa invitava la controparte in un determinato giorno dinanzi all’assemblea competente, comunicandogli il crimine per il quale fosse stato perseguito e la pena che rischiava. Una prima fase del processo, detta “ANQUISITIO”, si svolgeva nel corso di 3 riunioni informali (CONTIONES), durante le quali venivano ascoltati i testimoni di ambo le parti. Al termine della terza riunione, il magistrato poteva decidere se ritirare l’accusa o continuare nell’azione processuale: in tal caso, si passava a una quarta riunione, eletta 24 giorni dopo l’ultima, in cui il popolo esprimeva il proprio voto oralmente. Dopo, con una LEX CASSIA del 137 si stabilì che il voto fosse espresso su tavolette cerate. All’accusato era consentito di sottrarsi alla pena, abbandonando volontariamente la città: in tal caso si aveva la perdita della cittadinanza, la confisca dei beni e il divieto di tornare a Roma, previa la morte. LE QUAESTIONES PERPETUAE Nel 149 a.C. una LEX CALPURNIA DE REPETUNDIS stabilì che le accuse di malversazione contro i governatori delle province dovessero essere giudicate da un tribunale permanente, presieduto dal pretore peregrino e formato da giurati tratti dall’ordine senatorio. E’ questo il primo caso di tribunale permanente, istituito appositamente per perseguire un determinato illecito. Tuttavia, la repressione da esso attuata era ancora di tipo privatistico, in quanto non era prevista alcuna pena pubblica ma solo la condanna al risarcimento. Fu durante il tribunale di Caio Gracco che la LEX ACILIA REPETUNDARUM, fece in modo che le malversazioni dei governatori delle province vennero sanzionate con una pena pubblica, da versarsi all’erario, pari al doppio del valore del danno provocato. In questo caso, si diede vita a un vero e proprio crimen: il CRIMEN REPETUNDARUM. Secondo la legge, tali crimini dovevano essere giudicati da un tribunale penale permanente, dando vita alla prima quaestio perpetua in senso proprio, presieduto da un pretore e composto da giurati appartenenti all’ordine equestre. Nel corso degli anni fu particolarmente importante anche il contributo apportato da Silla che con numerose leggi riordinò le quaestiones già esistenti e ne istituì di nuove. Tra le più importanti c’erano: “QUAESTIO DE REPETUNDIS”, per il crimine di malversazione; “QUAESTIO DE MAIESTATE”, per l’alto tradimento; “QUAESTIO DE AMBITU”, per i reati elettorali; “QUAESTIO DE PECULATU”, per la sottrazione di denaro pubblico; “QUAESTIO DE SICARIIS ET VENEFICIIS”, sul porto abusivo di armi o omicidio; “QUAESTIO DE FALSIS”, per le false disposizioni testamentarie. Le quaestiones risolvevano i crimini solo all’interno della città di Roma. Nelle province, o l’accusato veniva inviato a Roma, dove sarebbe stato processato, oppure veniva processato direttamente dal governatore in virtù del suo imperium.

LA PROCEDURA INNANZI ALLE QUAESTIONES PERPETUAE Il processo, che aveva natura accusatoria, si svolgeva nel modo seguente: dopo l’impulso fornito da un privato cittadino (generalmente un cittadino qualunque, non necessariamente il soggetto offeso dal reato), attraverso la postulàtio(richiesta, al magistrato, del diritto di accusare), aveva luogo la vera e propria accusa ( nòminis delàtio), cui seguiva il provvedimento con cui il magistrato iscriveva l’accusato nella lista degli imputati. Dopo la formazione della giuria (i cui membri erano scelti dall’accusato nell’ambito della più ampia rosa che l’accusatore individuava nell’apposito albo predisposto dal magistrato), aveva luogo il vero e proprio dibattimento (con requisitoria dell’accusatore, escussione di eventuali testi di accusa, arringa difensiva con eventuali testi della difesa): al temine di tale fase, i giurati procedevano alla votazione: il voto si esprimeva su tavolette cerate, sulle quali c’era la conseguente decisioni di accusa, proscioglimento oppure astensione. Qualora il numero degli astenuti fosse elevato, occorreva rinnovare il dibattimento. Il magistrato, raccolti i voti, dichiarava solennemente il risultato dello scrutinio, pronunciando sulla colpevolezza o meno dell’accusato. Per quanto riguarda le pene, esse consistevano sempre nella morte o nella condanna al pagamento di una somma in denaro. CENNI SULLE CARATTERISTICHE GENERALI DELLA REPRESSIONE CRIMINALE NEL PRINCIPATO Il passaggio dalla repubblica al principato segnò anche un graduale mutamento del sistema di repressione criminale. Accanto agli organi repubblicani, che restarono in vigore per un lungo periodo di tempo, si affermò la COGNITIO EXTRA ORDINEM (così denominata perché si esplicava al di fuori dell’ordo iudiciorum publicorum costituito dalle corti giudicanti), che aveva come protagonisti il principe in persona, il senato e i funzionari imperiali. Lentamente, questo tipo di processo soppiantò le “quaestiones perpetuae”. Vennero introdotti nuovi reati, così come le pene da applicare. LE CARATTERISTICHE DELLA COGNITIO EXTRA ORDINEM CRIMINALE La COGNITIO EXTRA ORDINEM CRIMINALE in materia penale era un processo inquisitorio, a differenza di quelli svolgentesi dinanzi alle quaestiones perpetuae a carattere accusatorio. Lo svolgimento del processo era affidato al funzionario procedente dall’inizio sino alla sentenza: egli aveva la possibilità non solo di condurre indagini preliminari con l’ausilio dei collaboratori, ma anche di interrogare testimoni non indicati dalle parti o di sottoporre a tortura gli stessi imputati. Nell’emanare la sentenza, egli teneva conto di varie circostanze, in modo tale da poter commisurare la pena in base alla gravità del fatto, alla personalità del reo ed alle sue condizioni sociali. LE PENE Per quanto riguarda le pene, nel periodo del principato, oltre alla decapitazione già prevista dagli organi repubblicani, vennero introdotte anche la crocifissione,la vivi combustione, l’esposizione alle belve nell’arena. Vi erano poi pene, per i quali non era prevista la pena di morte, vennero introdotti i lavori forzati nelle miniere; i lavori forzati

maggiori alle miniere; la condanna a combattere come gladiatori o contro le belve. L’inflizione di tali pene riduceva il cittadino a “servo della pena”: confisca dei beni, perdita della cittadinanza, scioglimento del matrimonio, incapacità di disporre o di ricevere per testamento. Pene meno gravi erano la condanna di opere pubbliche; la deportazione perpetua cioè comportava la perdita della cittadinanza e la confisca dei beni; la relegazione su un’isola o nel deserto, che a differenza della deportazione poteva essere temporanea e non implicava la perdita di beni e di cittadinanza. Nel periodo imperiale, questo ordinamento penale era caratterizzato da due categorie: gli “HONESTIORES”e gli “HUMILIORES”. I primi erano i cittadini di classi sociali elevate, per i quali si cercava sempre di evitare la pena di morte; i secondi, erano gli appartenenti alle classi sociali più infime, ai quali erano attribuiti le pene più atroci. DIRITTO E PROCESSO CRIMINALE IN ETA’ AUSTUSTEA Nel 17 a.C con la LEX IULIA IUDICIORUM PUBLICORUM , Augusto riformò completamente la procedura delle quaestiones perpetuae: creò una sorta di codice di procedure penale, con il quale si stabilì che l’accusa fosse formulata per iscritto tramite un libello in cui dovevano essere contenuti il nome dell’accusato e dei fatti che gli venivano imputati. La novità più importante apportata da Augusto, fu l’introduzione di due nuove quaestiones per punire l’adulterio e i crimini annonari. Per la prima volta, con la LEX IULIA DE ADULTERIIS COERCENDIS, l’unione sessuale con una donna coniugata, o anche non coniugata purchè di onesti costumi, venne punita come “crimen”. Al marito venne riconosciuto il diritto non solo di uccidere l’amante della donna, qualora fossero stati colti in flagrante nella casa coniugale, ma aveva anche l’obbligo di divorziare. Tale diritto venne riconosciuto anche al padre nei confronti della figlia e del complice sempre che fossero stati colti in flagrante nella casa coniugale....


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