LA Rivoluzione Candida storia sociale della lavatrice in Italia PDF

Title LA Rivoluzione Candida storia sociale della lavatrice in Italia
Author Giulia Di Stefano
Course Storia dei processi formativi
Institution Università degli Studi di Firenze
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lavatrice storia...


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LA RIVOLUZIONE CANDIDA storia sociale della lavatrice in Italia (1945-1970)

1° CAPITOLO Quando le imprese italiane cominciarono a muovere i primi passi nel settore degli elettrodomestici bianchi, molti di questi prodotti avevano raggiunto una stabilizzazione produttiva, grazie alle ricerche attuate negli Stati Uniti, a partire dal secondo decennio del Novecento. Tra le due guerre in Europa avevano fatto il loro ingresso nella produzione di elettrodomestici i grandi gruppi tedeschi, come Bosch, Siemens e AEG, destinati a divenire nel secondo dopoguerra marchi solidi a livello internazionale. L’Electrolux era nata in Svezia, che avviava negli anni Venti, in Svezia in Gran Bretagna poi, la sua produzione di aspirapolvere e di frigoriferi. In Italia prima della guerra, soltanto la Fiat produceva frigoriferi. In itali dal secondo dopoguerra si costituì il primo nucleo di imprese destinato a formare la base della produzione industriale nazionale di tale settore. In questi anni, il mercato italiano era popolato dai produttori esteri, soprattutto statunitensi come la Kelvinator, Ford Motor Company ecc… accanto ad essi, si collocavano grandi aziende italiane per le quali la produzione di elettrodomestici rappresentava il meno importante, dei settori produttivi. Nessuna delle grandi aziende meccaniche o elettrotecniche riuscì a mantenere, oltre questa fase iniziale, un posto di rilievo nel settore, riducendo la propria partecipazione o abbandonando del tutto il campo, come avvenne per la Fiat, che cessò di produrre elettrodomestici nel 1964. L’avvio della produzione di elettrodomestici, e in particolare di frigoriferi, delle aziende in questione, Ignis, Zanussi e Zoppas ad esempio, avvenne nell’ambito di un processo di diversificazione produttiva, a partire dalla produzione di fornelli e cucine a gas. La preparazione tecnica svolse un ruolo importante nell’avvio della produzione della lavabiancheria, agli inizi degli anni 60 fecero eccezione imprese come Candy e la Riber che si specializzarono sin dall’inizio nel comparto del lavaggio. La prima lavabiancheria progettata e prodotta in Italia fu presentata dalle Officine Meccaniche Eden Fumagalli alla fiera di Milano del 1946. I dodici esemplari Candy 50 andarono a ruba; da quel momento in poi, quella novità d’oltreoceano sarebbe diventata il fulcro di uno sforzo costante di innovazione progettuale e produttiva, che nel giro di vent’anni avrebbe portato la piccola officina di Monza ai vertici italiani ed europei del comparto del lavaggio. L’intuizione cruciale destinata a portare l’industria italiana ai vertici del settore in Europa, già a partire dagli anni Sessanta, fu l’individuazione del segmento medio-basso del mercato quale area su cui concentrare la produzione. La scelta di tale fascia, si sarebbe rivelata vincente perché nell’ottica di un confronto nel mercato integrativo che stava nascendo in Europa, essa risulta meno affollata dai principali marchi internazionali. La ricerca di materiali meno costosi portò le imprese italiane ad avviare per prime in Europa negli anni Sessanta. Semplificazione dei modelli e realizzazione di un design semplice e funzionale. Abbassamento dei costi produttivi e riduzione dell’ingombro furono gli obiettivi perseguiti. Un’altra innovazione nel settore del lavaggio, apportata in Europa, in primo luogo dalla Candy: l’adozione della tecnologia americana dei timer; rivoluzionò il mondo della lavabiancheria.

L’evoluzione compiuta dalle strutture tecnico-organizzative delle imprese leader del settore, sino alla metà della gli anni Sessanta, può essere scomposta in tre fasi. Prima fase da un conseguente impiego di manodopera nelle lavorazioni meccaniche ed elettromeccaniche, e nella fase del montaggio dei pezzi Seconda fase elevato progresso tecnico conseguito su singole fasi del processo produttivo, quali smalteria, verniciatura, lavorazione delle lamiere ed altre. Non tutte le imprese giunsero poi alla terza fase, che si presentava da una più intensa meccanizzazione, ma soprattutto dall’adozione di una concezione moderna e razionale della struttura organizzativa dell’impianto. Nel 1964, le prime sei imprese produttrici di frigoriferi (Ignis, Zanussi, Indesit, Candy, Zoppas, Castor) controllavano l’83% della produzione nazionale, nel caso della lavabiancheria la quota delle prime sei raggiungeva persino il 91% del totale dei pezzi prodotti. Sino alla metà degli anni Sessanta circa, la competitività del prezzo dei prodotti rappresentò un elemento strategico fondamentale per l’affermazione di un’impresa sulle altre. Alla vigilia del “miracolo economico” nel 1957 l’Italia con una produzione complessiva già considerevole di 370 mila pezzi, si collocava nella graduatoria mondiale dei produttori di frigoriferi, dopo Stati Uniti, Germania e Francia e il terzo in Europa. Nel decennio 1957-67 l’evoluzione della produzione nazionale di lavabiancheria fu sbalorditiva: nel 1957 l’Italia con soli 79 mila pezzi, si collocava agli ultimi posti della graduatoria mondiale. I segnali di rimonta, la termine della prima fase del “miracolo”: nel 1964 con una produzione di 1 milione e 264 mila lavabiancheria, si collocava al secondo posto in Europa dopo la Germania. Focalizzare l’attenzione sulla storia della lavabiancheria italiana, e sulle vicende di due aziende che hanno svolto in essa un ruolo da protagoniste. La prima la Candy di Monza, negli anni Sessanta ha lanciato un marchi che per decenni ha rappresentato, nell’immaginario del consumatore italiano, l’emblema della lavabiancheria italiana. “Grazie Candy!” è lo slogan. Negli anni Sessanta, l’azienda ha puntato sui prodotti del comparto del lavaggio. La storia della lavabiancheria Zanussi è molto diversa: essa si inserisce, come tassello fondamentale, ma non certo unico. Candy Eden fondatore nel 1927 di un piccolo laboratorio, le officine meccaniche eden Fumagalli, che si specializzò a Monza nel campo della meccanica leggera. Nel periodo tra le due guerre la sua officina crebbe notevolmente, arrivando ad occupare quasi un centinaio di addetti nel 1940. La guerra ne interruppe l’attività, colpendo la famiglia Fumagalli: il secondo genito Enzo fu fatto prigioniero dagli Americani e condotto negli stati uniti. Dall’America Enzo riuscì ad inviare in Italia alcuni schizzi di una lavabiancheria, (una strana macchina che aveva attirato la sua attenzione nel campo di prigionia). La prima lavatrice non era altro che una piccola caldaia smaltata a forma di tinozza, con una vasca in alluminio e mangano per azionare dei rulli in legno, con cui strizzare la biancheria. Il suo nome, Candy. Nel 1957 arrivò il primo modello di lavabiancheria semiautomatica con centrifuga incorporata, la Candy Bi-Matic, seguita l’anno dopo dalla Automatic, primo modello di lavabiancheria automatica. L’azienda dovette incrementare la manodopera, che salì nel 1960 a 400 unità. La produzione giornaliera si aggirava ai 370-380 pezzi, quasi un centinaio di migliaia di elettrodomestici all’anno. L’azienda aspirava a sintetizzare le qualità e al tempo stesso, superare e

correggere i difetti, dei modelli americani, troppo ingombranti e neanche troppo funzionali e quelli tedeschi, pesanti e costosi. Zanussi Nel comune di Pordenone (Porcia) ha sede lo stabilimento di lavabiancheria Zanussi, ora centro mondiale del lavaggio dell’Electrolux, la società creata nel 1999 dalla multinazionale svedese per riunire tutte le attività del Gruppo nel settore degli elettrodomestici bianchi. L’azienda nel dopoguerra aveva riscosso successo con la produzione, a partire dal 1951 nel promettente settore dei fornelli e delle cucine a gas liquido, avviò la produzione dei frigoriferi a marchio Rex. Alla fine degli anni Cinquanta avviò la produzione di lavabiancheria. La Rex 260, il primo modello automatico interamente progettato all’interno dell’azienda. La strada della diversificazione produttiva proseguiva nei primi anni Sessanta nel settore dell’elettronica: con la produzione dei televisori. Nel corso degli anni Sessanta e settanta, Candy e Zanussi rappresentavano due grandi realtà industriali italiane. I loro prodotti in quegli anni erano icone di un’Italia che con una rapidità entrava nel quadro delle grandi potenze industriali del mondo. In quegli anni quegli stessi prodotti entravano nella vita quotidiana delle famiglie italiane, trasformando non soltanto l’assetto industriale del paese, ma anche costumi e abitudini quotidiane. Quei frigoriferi, quelle lavatrici, portano con sé la storia di un’Italia che si modernizza, che cresceva economicamente affermandosi a livello internazionale; portavano con sé la storia e le vicende delle imprese. 2° CAPITOLO Storia sociale e culturale della lavatrice. Essa ha forti legami con la storia della famiglia e con quella delle identità di genere, intrecciandosi intimamente con i gesti, i luoghi e i tempi della vita quotidiana. La storia della lavatrice come fenomeno sociale è, infatti, una storia complessa. Le sue tappe raccontano un processo tecnico che ha meccanizzato e automatizzato una tradizionale gesto della mano femminile e non solo. Al cuore di essa stanno i passaggi di una trasformazione della percezione del tempo e dello spazio del lavoro domestico e delle donne, insieme la ridefinizione e la negoziazione costante dei ritmi di una famiglia. Un rituale collettivo al femminile: il bucato prima della lavatrice. In città oltre la fine del secolo XIX, all’interno delle abitazioni, la ristrettezza degli spazi non consente una separazione dei luoghi e delle funzioni, si vive costantemente a stretto contatto gli uni con gli altri, né è possibile una divisione tra luoghi di rappresentanza, luoghi del privato e servizi. Le condizioni igieniche sono approssimative e il disagio maggiore è rappresentato dalla mancanza all’esterno dell’abitazione di acquaio e latrine, condivisi anche da undici o più inquilini. In campagna gli spazi domestici possono essere maggiori. Le case contadine hanno spesso una grande cucina accogliente, dove si cucina, si mangia, ci si riscalda e si trascorre il tempo. Il tempo delle donne, a differenza del tempo “libero” delle signore dei ceti alti, è occupato da lavoro, da un doppio lavoro, dal momento che alle faccende domestiche si assommano i doveri di integrazione del magro salario del capofamiglia, o in campagna, le incombenze del lavoro dei campi, da cui esse non sono mai state esentate. Nei campi come al fiume, per le strade delle città o al lavatoio, la vita quotidiana per le donne di queste fasce sociali è tutt’altro che relegata all’interno delle mura

domestiche. In campagna, il tempo del lavoro domestico delle donne non era organizzato da rigide scansioni, era un tempo fluido, lento, ripetitivo. Uno dei momenti dominanti era rappresentato dal bucato. Poteva trattarsi del lavaggio stagionale della biancheria di uso domestico oppure di quello della biancheria personale. I gesti ripetitivi di chi lavava, seguivano un copione predefinito, riconducibile a tre momenti fondamentali: una fase preparatoria: il bucato veniva messo in ammollo, la fase cruciale: della lisciviatura la fase del lavaggio finale: consistente nella battitura, fregatura e risciacquo della biancheria Il momento centrale richiedeva un’adeguata preparazione svolta dalle donne il giorno precedente: in un apposito mastello, veniva riposto al fondo un ampio strato di cenere e avvolta in un telo grosso, per evitare il contatto diretto con la biancheria. L’operazione vera e propria consisteva nella ripetizione continua del medesimo gesto: veniva versata acqua tiepida sul bucato e mescolandosi con la cenere al fondo del mastello formava la liscivia, si raccoglieva questo liquido denso e dopo averlo scaldato in una caldaia, lo si versava sul bucato, ripetendo il ciclo varie volte. Il lavaggio vero e proprio avveniva il giorno seguente; questa fase si svolgeva per lo più all’aperto, al fiume o al lavatoio. Attività lunga e faticosa, il bucato è stato a lungo, specialmente nella fase della battitura e del risciacquo dei panni, un’operazione tutt’altro che casalinga. Come in campagna anche in città, presso le fontane, sulle rive di canali e fiumi cittadini, si pensi ai navigli milanesi, o nei lavatoi pubblici, in Italia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; il lavaggio avveniva fuori dalle mura domestiche e soprattutto in compagnia. Le abitazioni popolari non disponevano al loro interno di servizi e acqua corrente, o di spazio a sufficienza per un adeguato locale da bagno. Il lavaggio dei panni avveniva fuori casa, nei lavatoi comuni. Nei primi decenni del Novecento fino agli anni Venti, le realizzazioni di edilizia popolare, eseguite ad opera del comune, sorto nel 1908 sulla scia della legge Luzzatti del 1903 consistente nella concentrazione in un’unica palazzina dei servizi collettivi, lavatoi anche scuole materne, ambulatori, cucine per ammalati e indigenti. Accanto ai lavatoi di quartiere, esistevano poi quelli municipali: a Milano agli inizi del Novecento, ne esistevano sei, dislocati in vari punti della città e un servizio a pagamento per l’erogazione di acqua calda e l’asciugatura della biancheria. Al lavatoio le giornate femminili trovano spesso un’occasione di convergenza. Le famiglie medie e quelle benestanti, non disponendo anch’esse di spazi adeguati al bucato, ricorrevano all’aiuto delle lavandaie. Nelle varie tipologie di famiglie contadine come quelle operaie risulta come il bucato fosse una mansione svolta principalmente dalla moglie e dalle donne di casa. Le lavandaie lavoravano in proprio o alla dipendenza delle lavanderie, che sorgevano in città lungo i corsi d’acqua o i canali. Il lavatoio era un cruciale luogo di incontro al femminile. Nella Francia ottocentesca descritta da Michelle Perrot, i lavatoi erano un crocevia di confronti e conflitti, di invidie e pettegolezzi, di collaborazione e solidarietà. Si apprendono notizie sugli avvenimenti locali, ci si scambia consigli, rimedi e ricette, le giovani apprendevano saperi antichi. Lavare la biancheria propria e degli altri diventava dunque un momento di condivisione collettiva dell’intimità. Nel corso del secolo, già prima della Seconda guerra mondiale, a partire dai ceti più alti, un radicale processo di modernizzazione avrebbe favorito una trasformazione della domesticità, di una più forte privatizzazione. All’interno di questo percorso, la lavatrice avrebbe giocato un ruolo da

protagonista. In molti contesti familiari porta a riconoscere che la lavatrice più che cambiare vita alla padrona di casa, l’avrebbe cambiata alla collaboratrice domestica. La lavatrice fu propagandata dalla pubblicità come oggetto “femminile” per eccellenza”. Tra femminilità e domesticità non occorreva sforzarsi di immaginare una differenza. La rotazione rituale dei lavaggi, al ritmo del susseguirsi delle stagioni e delle settimane, sarebbe stata interrotta dall’efficienza neutra di una macchina che non imponeva spazi e tempi prestabiliti, potendo funzionare in ogni momento. La gestione razionale della casa, assieme al consumo, era un ambito cruciale nel quale la casalinga americana avrebbe dovuto dispiegare le potenzialità del suo inedito ruolo di virtuosa mediatrice tra interno ed esterno. Moderna casalinga americana: una giornata scandita sino all’ultimo minuto, gesti ripetuti razionalmente nel tempo, massima efficienza, minimo spreco. Tutto all’interno della casa doveva infatti essere disposto secondo un ordine funzionale che avrebbe favorito il minimo dispendio di tempo e fatica. Anche in Europa il razionalismo comportò una nuova enfasi sulla progettazione dello spazio cucina: la “cucina razionale” doveva infatti divenire il cuore meccanico della catena di montaggio domestica. Il microcosmo-cucina doveva dunque servire e operare in funzione del macrocosmo familiare. Gli elettrodomestici furono assieme alla casalinga professionalizzata, il fulcro della riflessione americana degli anni Trenta e Quaranta. La cucina all’americana, come verrà chiamata in Europa, oltre a rispettare i parametri della razionalità, era soprattutto spaziosa e superattrezzata, meccanizzata all’ennesima potenza, ma al tempo stesso esteticamente gradevole. In Italia, il mito di un benessere elettrico trovava la sua prima realizzazione esemplare nella casa elettrica proposta a Monza sotto il patrocinio della società Edison nel 1930. Completa di aspirapolvere, lucidatore, termoventilatore, macinacaffè, l’immancabile frigorifero, una lavabiancheria, scaldabagni, phon e arricciacapelli: nella casa elettrica concepita come casa per le vacanze, l’elettrodomestico era strumento di benessere e di relax privato, che consentiva alla casalinga di svolgere tutte le mansioni senza il minimo sforzo, senza il ricorso al personale domestico. La casalinga a tempo pieno, devota alle esigenze familiari e domestiche, veniva additata come modello valido per tutte le donne italiane. Chiara Saraceno, le politiche del lavoro e le norme sulla tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri, approvate nel 1950, il primato della responsabilità femminile nei confronti dell’allevamento dei figli: disponendo il finanziamento di camere di allattamento e di asili nido da parte dei datori di lavoro che avessero alle dipendenze più di tenta donne sposate, se da un lato si diede un sostegno alle madri lavoratrici, dall’altro si disincentivò un’assunzione di responsabilità da parte dei padri. Questi ultimi non avrebbero potuto iscrivere i figli negli asili delle proprie aziende. Dal momento che soltanto i mariti/padri lavoratori, titolari dell’assicurazione sanitaria, potevano estenderla a moglie e figli a carico. Nei decenni tra le due guerre, l’esperienza abitativa della borghesia agiata e quella delle classi popolari, urbane e rurali, risultavano diversificate, tanto da portare la stessa riflessione architettonica a marginalizzare il tema della casa razionale, o a concepirla come nel caso della casa elettrica di Monza, come una proposta ancora connotata in senso esclusivamente borghese.

A Torino, l’indagine svolta su sei quartieri, rivelava chiaramente come anche qui per i ceti popolari il privilegio della privacy fosse divenuto ormai l’obbiettivo primario e imprescindibile dell’abitare. Tra le domande rivolte dal gruppo di ricerca agli intervistati, ancora una volta è quella sui servizi collettivi che maggiormente desta interesse. La questione della gestione del bucato da parte delle famiglie, interrogati sull’eventualità dell’introduzione nel quartiere di una lavanderia collettiva, più della metà degli intervistati espresse un parere negativo. Una risposta per tutti fu: “i panni sporchi è meglio lavarli in casa propria!”. Nessuna abitazione era dotata di un’apposita zona servizi superaccessoriata, come quella nella casa elettrica di Monza e pertanto le operazioni di lavaggio erano scomodamente svolte nella vasca da bagno o in una tinozza. Solo il 3% degli intervistati, possedeva una lavabiancheria meccanica. Tra gli aspetti più attraenti della modernità della lavatrice vi sarebbe stata la possibilità di usufruire dei suoi vantaggi in privato, nel chiuso delle mura domestiche.

3° CAPITOLO Un’approfondita indagine sul mercato mondiale degli apparecchi elettrodomestici ricostruisce un quadro di partenza da cui prendere le mosse per delineare i movimenti cruciali dell’evoluzione del mercato italiano delle lavabiancheria. Secondo l’analisi dei dati presi a riferimento per il contesto italiano eseguita per l’anno 1956 dalla società italiana per le ricerche di mercato, su un campione di 10 milioni di utenti domestici sarebbero state 225 mila le lavatrici installate entro il 31 dicembre, sull’intero territorio nazionale, in media 2,81 risultavano possessori di una lavabiancheria. Come si evince dai dati, nel 1956 il mercato della lavabiancheria a confronto di altri beni era quello meno sviluppato. Il punto cruciale non è tanto di un’eventuale maggiore “necessità” attribuita dalle famiglie italiane al frigorifero, piuttosto che alla lavabiancheria, tali da far apparire secondario il problema della fatica del bucato, rispetto a quello della conservazione dei cibi. Fra i vari elementi, si può ipotizzare, secondo le conclusioni di un’indagine psicologica condotta negli anni Cinquanta, l’influenza esercitata sull’immaginario collettivo associabile al frigorifero, un candido contenitore capace di accogliere e conservare le provviste...


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