La sanità in Italia - Toth - Riassunto completo PDF

Title La sanità in Italia - Toth - Riassunto completo
Author Alice Gilli
Course Diritto amministrativo II
Institution Università degli Studi di Torino
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Riassunto completo testo, molto dettagliato, suddiviso per capitoli e paragrafi...


Description

LA SANITA' IN ITALIA di Federico Toth

Introduzione Nel 2012 la filiera della salute, comprendente non solo le prestazioni ambulatoriali e ospedaliere, ma anche il settore farmaceutico e l’industria dei dispositivi medici, valeva l’11,2% del PIL, è quindi una fetta gigantesca delle politiche pubbliche. Nel suo complesso il SSN italiano è fra i primi al mondo, ma può capitare che ci siano alcuni segni discordanti. Quella sanitaria è la quarta filiera produttiva dopo costruzioni, agricoltura e ICI. Il SSN impegna da solo oltre il 16% della spesa pubblica italiana e i suoi dipendenti costituiscono il 20,8% del pubblico impiego. Le regioni, inoltre, destinano oltre l’80% del loro budget per la sanità. Tutti abbiamo interesse che il sistema sanitario funzioni bene, ma la maggioranza delle persone conosce solo approssimativamente, e spesso filtrato da notizie giornalistiche, come esso viene finanziato. Ad esempio, è notizia recente che Emergency, dopo aver aperto ospedali e centri chirurgici in paesi martoriati dalla guerra, abbia in programma l'apertura di nuovi ambulatori nel nostro Paese (dopo quelli di Palermo e Marghera). Tali ambulatori offrono cure sanitarie gratuite e si dice che siano molto frequentati anche da italiani. Viene quindi da chiedersi come sia possibile: in Italia non abbiamo un servizio sanitario pubblico che dovrebbe assistere tutti gratuitamente, italiani e immigrati? Ricevendo segnali contraddittori, è difficile esprimere una valutazione complessiva della sanità in Italia.

Capitolo primo BREVE STORIA POLITICA DEL SISTEMA SANITARIO ITALIANO 1. Tre modelli sanitari Per poter capire bene come si è arrivati al SSN, bisogna suddividere la storia del sistema sanitario italiano in tre fasi successive, a seconda del modello sanitario adottato di volta in volta. Esistono essenzialmente tre modelli attraverso cui avveniva l'erogazione dei servizi sanitari. 1. L’assicurazione volontaria è prevista dagli anni Trenta fino al 1943. Si distingue dagli altri due modelli perché non poneva nessun obbligo ai singoli cittadini, i quali potevano liberamente scegliere se assicurarsi o meno contro i rischi di malattia. Coloro che volevano assicurarsi potevano rivolgersi a compagnie private (società di mutuo soccorso) e stipulare una polizza assicurativa, solitamente adattata alle condizioni economiche e di salute della persona. Le cure, in generale, venivano erogate da professionisti e da strutture di cura indipendenti rispetto alle compagnie di assicurazioni, che queste ultime si limitavano a rimborsare. 2. L’assicurazione sociale di malattia, invece, si fonda sul principio secondo cui alcune categorie di lavoratori erano obbligati a contribuire per legge a uno schema di copertura sanitaria. Le società di mutuo soccorso erano libere associazioni senza fini di lucro, la cui principale funzione era di tutelare i lavoratori in caso di malattia o infortunio. L’assicuratore non è lo Stato ma una pluralità di casse di malattia, che raccoglievano i contributi dei lavoratori su base territoriale o professionale, ed in cambio esse provvedevano al rimborso delle spese sanitarie sostenute dai propri associati. I contributi obbligatori da versare alla cassa malattia (normalmente ripartiti tra dipendente e datore di lavoro) possono consistere in una cifra forfettaria uguale per tutti gli iscritti o calcolati in proporzione al reddito percepito. Almeno all’inizio del modello dell’assicurazione sociale, i cittadini non erano liberi di scegliere la cassa malattia presso cui iscriversi (diversamente dal modello dell’assicurazione volontaria), ma l’assegnazione avviene d’ufficio, in base alla residenza o alla professione del capofamiglia. Gli assistiti possono liberamente scegliere le strutture e i professionisti da cui farsi curare e, nella maggior parte dei casi, i soggetti che erogano le cure sono autonomi rispetto alle casse mutue. Gli utenti usufruiscono delle prestazioni sanitarie di cui hanno necessità sapendo che saranno rimborsati dalla propria cassa di malattia. 3. Il SSN presenta caratteristiche molto differenti dai due modelli precedenti: - viene finanziato dal gettito fiscale e lo Stato raccoglie e gestisce le risorse destinate al finanziamento del sistema sanitario; - garantisce all’intera popolazione l’assistenza sanitaria e le cure mediche essenziali, senza disparità formale di trattamento.

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Diversamente da compagnie assicurative o casse di malattia, che si limitavano al rimborso, il SSN si impegna a fornire direttamente ai cittadini una vasta gamma di prestazioni, al cui fine dispone di propri dipendenti e proprie strutture ospedaliere e ambulatoriali. L’Italia è tra i pochi Paesi ad aver sperimentato, nel corso dei decenni, tutti e tre i modelli. 2. Le società di mutuo soccorso Le società di mutuo soccorso erano libere associazioni senza fini di lucro, la cui principale funzione era la tutale dei lavoratori in caso di malattia o infortunio. Poiché tra fine Ottocento e inizio Novecento ammalarsi comportava (ancor puù che il costo delle cure mediche) soprattutto la perdita temporanea o definitiva del reddito da lavoro, le società mutualistiche tentarono di porre rimedio al problema erogando un’indennità ai propri iscritti che si fossero ammalati. Ad esempio, i contributi da versare alla società di mutuo soccorso oscillavano tra lo 0,25% e il 3% dello stipendio e l’associato, in caso di malattia, avrebbe avuto diritto a un sussidio giornaliero non superiore al 60% del salario abituale. Operavano nel nostro Paese società di mutuo soccorso di varia natura: soprattutto territoriale, categoriale, aziendale, mista, ma anche d’ispirazione cattolica, repubblicana o sociale, ecc. Fenomeno in continua espansione, nel 1862 si contavano in Italia 443 mutue con circa 121.000 iscritti, mentre nel 1937 gli iscritti alle società di mutuo soccorso, tra titolari e relativi familiari, superavano i 2,2 milioni. Oltre agli iscritti alle società di mutuo soccorso, un'altra categoria che aveva diritto alla tutela contro i rischi di malattia erano gli indigenti. In ogni municipio veniva tenuto un registro a cui i cittadini meno abbienti potevano iscriversi e dei quali l'amministrazione comunale era tenuta a farsi carico dell’assistenza sanitaria agli iscritti nel registro dei poveri. Gli indigenti avevano diritto all'assistenza sanitaria gratuita da parte dei medici degli ospedali e al ricovero, sempre gratuito, nelle opere pie ospedaliere (anche gli indigenti dovevano provvedere da sé alle rette ospedaliere). La maggioranza della popolazione, né iscritta a una società di mutuo soccorso né nel registro degli indigenti, doveva pagare le cure mediche di tasca propria. Nel sistema sanitario di allora un ruolo cruciale era assegnato al medico condotto: da un lato era tenuto ad assistere gratuitamente gli indigenti e, a pagamento, gli altri cittadini, dall’altro fungeva da ufficiale sanitario, provvedendo alle vaccinazioni e inviando rapporti periodici sulle condizioni igienico-sanitarie del territorio di propria competenza. I medici avevano l’obbligo di residenza nel comune in cui avevano la condotta e dovevano garantire la presenza continuativa, anche di notte e durante le festività. L’assistenza ospedaliera era in larga parte erogata dalle opere pie, istituzioni religiose e caritative, che si finanziavano attraverso donazioni, beneficienza, contributi dei comuni e attraverso i pagamenti delle società di mutuo soccorso a fronte delle prestazioni di cui beneficiavano i propri associati. Gli ospedali pubblici del tempo, in numero minore rispetto alle opere pie, erano soprattutto strutture davano ospitalità a poveri, malati cronici, contagiosi, moribondi e anziani privi di familiari che potessero accudirli. Solo dagli anni Venti o Trenta, contemporaneamente ai progressi in campo chirurgico (es. anestesia), diagnostico (es. raggi X) e terapeutico, l’ospedale inizia a diventare soprattutto nell’Italia centrosettentrionale un luogo ad alta intensità tecnologica. 3. Il sistema mutualistico (1943-1978) Il principale limite dell’associazionismo mutualistico volontario rimaneva il suo scarso radicamento : alla metà degli anni Trenta gli assistiti dalle società di mutuo soccorso rappresentavano poco più del 5% della popolazione italiana. Maturò quindi la convinzione che il sistema volontario fosse inadeguato e che si dovesse introdurre una forma di obbligo assicurativo. Già nel 1939 il contratto collettivo nazionale degli operai dell’industria stabiliva che venisse istituita una cassa mutua interprofessionale, a cui dovevano obbligatoriamente iscriversi tutti gli operai delle aziende industriali, artigianali e cooperative. Le casse avrebbero dovuto garantire ai propri assistiti un'indennità in caso di malattia e la copertura delle spese mediche e farmaceutiche. I contributi sarebbero stati suddivisi equamente tra datore di lavoro e dipendente. Tuttavia, forse anche a causa degli eventi bellici, la disposizione venne attuata solo in parte. La svolta si ebbe con la legge 138/1943, che istituì l'Inam (istituto nazionale per l’assicurazione contro le malattie), a cui sarebbero stati obbligatoriamente iscritti tutti i lavoratori dipendenti di agricoltura, industria, commercio e settore creditizio-assicurativo; le preesistenti società di mutuo soccorso sarebbero confluite nel nuovo ente e la copertura assicurativa avrebbe riguardato i lavoratori e i rispettivi familiari a carico. I dipendenti statali e i lavoratori delle ferrovie, avevano invece l'obbligo di versare i propri contributi all'Enpas (Ente nazionale di previdenza e assistenza per i dipendenti statali). Essendo l'iscrizione a tali enti non più facoltativa ma obbligatoria per i lavoratori, la riforma del 1943 rappresentò un importante punto di svolta per il sistema sanitario italiano: da un'assicurazione volontaria si passò infatti ad un sistema di assicurazione sociale di malattia. 2

Come funzionavano le mutue e i limiti del sistema mutualistico Nell'immediato dopoguerra, erano pertanto soggetti all'obbligo assicurativo solo i dipendenti statali e del settore privato. L'obbligo di assicurarsi contro i rischi di malattia venne tuttavia in seguito esteso a molte altre categorie. Nel 1950 le casse di malattia fornivano assistenza a circa il 38% degli italiani e nel 1966 la copertura arrivava fino all'82% della popolazione. Ogni categoria aveva la propria gestione mutualistica e operava pertanto in Italia una grande varietà di enti mutualistici (ogni cassa mutua aveva un proprio statuto e un proprio regolamento). I contributi dei lavoratori consistevano in un prelievo percentuale sul salario, differente tra una cassa mutua e l’altra, cosi come erano differenti i benefici offerti. Le casse di maggiori dimensioni potevano disporre di propri ambulatori tramite cui fornivano direttamente assistenza ai propri associati, mentre altri enti garantivano le cure sanitarie indirizzando i propri assistiti verso fornitori esterni convenzionati o altri ancora optavano per un modello misto. I limiti del sistema mutualistico Il sistema mutualistico mostrò fin dagli anni Cinquanta una serie di problemi: - estrema frammentazione organizzativa sia per quanto riguarda la raccolta dei contributi ripartita tra centinaia di enti diversi e lo scollamento tra i diversi comparti dell’assistenza (es. medici di famigli convenzionati con più casse mutua, cure specialistiche ambulatoriali fornite in strutture dipendenti dalle casse mutua, gli ospedali operavano slegati dagli altri livelli di assistenza, ecc.). - disparità di copertura e di trattamento; se all'apice della loro espansione, alla metà degli anni Settanta, le casse mutue arrivarono a coprire il 93% della popolazione, rimanevano privi di copertura sanitaria oltre 3 milioni di italiani , poiché nel modello dell'assicurazione obbligatoria di malattia il diritto all'assistenza è subordinato alla partecipazione, diretta o del capofamiglia, al mercato del lavoro e gli esclusi dal sistema mutualistico erano quindi per la maggior parte giovani in cerca di occupazione e non più a carico dei genitori, disoccupati non percettori di indennità e sussidi, persone con redditi propri non da lavoro; - difficoltà di ordine finanziario in quanto molte casse mutue fecero registrare ricorrenti passivi di gestione di cui dovette farsi carico lo Stato; - gli enti mutualistici furono oggetto di lottizzazione partitica; i vertici di questi enti erano infatti di nomina politica e fu facile per i partiti di maggiore importanza sfruttare tale opportunità per attrarre nella propria orbita elettorale le singole categorie beneficiate. La riforma ospedaliera del 1968 Verso la metà degli anni Settanta i problemi continuarono ad aumentare: le casse mutue accumularono pesanti deficit di gestione e a risentirne in particolare fu la qualità dell'assistenza ospedaliera, già insoddisfacente (buona parte degli ospedali italiani versava in condizioni penose). Maturò così l'idea che si dovesse procedere ad una radicale riforma del comparto ospedaliero, riorganizzato con la legge 132/1968 (legge Mariotti), la quale aprì la strada alla successiva istituzione del SSN. La riforma, per prima cosa, estese il diritto all'assistenza ospedaliera a tutti cittadini, anche non iscritti alle casse mutue. Dei debiti degli ospedali si sarebbe fatto carico lo Stato e le regioni si sarebbero occupate della programmazione ospedaliera, mentre prima della riforma gli ospedali pubblici facevano capo a diversi enti (Inps, Inail, Inam, Ipab e Croce Rossa, singoli comuni o province) e naturalmente ognuna di queste gestiva le strutture ospedaliere con criteri differenti. La riforma del 1968 unificò e razionalizzò la rete ospedaliera, sottoponendo tutte le strutture ai medesimi obblighi e controlli, e avviando una classificazione degli ospedali in zonali, provinciali e regionali. Nemmeno la riforma ospedaliera però riuscì a mitigare le difficoltà economiche delle casse mutue e in seguito alla riforma i costi triplicarono nell'arco di appena cinque anni, tanto che nel 1974 le mutue vennero commissariate, in previsione della loro liquidazione. 4. L'istituzione del servizio sanitario nazionale (1978) Nel 1978 l’inclusione del partito comunista nell’area pentapartitica del governo Andreotti IV fu decisiva per l’approvazione della riforma sanitaria: l’istituzione del SSN fu posta come condizione del PCI per il proprio sostegno al governo. Non è quindi un caso che il 1978 si sia rivelato come un anno memorabile in tema di legislazione sanitaria: oltre all’istituzione del SSN, vennero approvate la legge Basaglia di riforma dei servizi psichiatrici e la legge sulla regolamentazione dell’aborto.

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Sostennero la riforma sanitaria insieme al PCI altri partiti di sinistra, i sindacati, gran parte dell’associazionismo cattolico, Confindustria e le professioni sanitarie ausiliarie ed emergenti (es. tecnici di laboratorio, infermieri, psicologi, assistenti sociali, igienisti). Al contrario, oltre i partiti all’opposizione (PLI e MSI) furono soprattutto i dipendenti delle casse mutue e gli ordini dei medici (questi ultimi, diedero il loro beneplacito alla riforma solo quando fu garantito loro che la riforma non proibiva ai medici dipendenti del servizio pubblico la libera professione). La legge 833/1978, istitutiva del servizio sanitario nazionale, dopo molti rinvii fu approvata con parere favorevole di DC, PCI, partito socialista e partito socialdemocratico, con parere contrario di MSI (un deputato del quale definì la riforma un colossale errore) e partito liberale e con astensione del partito repubblicano, che pure sosteneva il governo di solidarietà nazionale. La legge sul SSN intese soprattutto promuovere un grande processo di integrazione organizzativa: - sul fronte del finanziamento comportò la sostituzione di tutte le casse mutue preesistenti (che vennero liquidate) con un'unica assicurazione nazionale estesa all’intera popolazione, così che l’assistenza sanitaria da tutela del lavoratore diventava diritto della cittadinanza; inoltre, il SSN sarebbe stato finanziato dal gettito fiscale; - sul fronte dell’erogazione delle cure tutti gli ospedali e ambulatori pubblici divennero strutture operative del SSN e la maggior parte del personale sanitario passò alle dirette dipendenze del servizio pubblico, collegando così tutti i comparti dell’assistenza sanitaria (es. cure primarie e specialistiche, prevenzione, riabilitazione, igiene pubblica e servizi veterinari). Il governo nazionale mantenne la programmazione complessiva, il coordinamento e il finanziamento del sistema sanitario; alle regioni vennero assegnate importanti funzioni di programmazione, mentre la gestione delle unità operative, denominate USL, fu invece affidata ai comuni. Le case di cura e gli ambulatori privati non furono assorbiti dal SSN, pur essendo riconosciuto loro il diritto di convenzionarsi con il servizio pubblico. I medici di famiglia e alcuni medici specialistici conservarono lo status di liberi professionisti, mentre ai medici ospedalieri che divennero dipendenti del SSN fu concesso di continuare a svolgere anche la libera professione al di fuori del normale orario di lavoro. Il SSN e il problema degli anni Ottanta Già negli anni Ottanta il SSN attirò su di sé diverse critiche: venne accusato di erogare prestazioni di bassa qualità, di essere eccessivamente burocratico, di tollerare sprechi e corruzione ma, soprattutto, l’eccessiva ingerenza dei partiti. Le USL erano infatti governate da un comitato collegiale di gestione, i cui membri (da sette a tredici) erano nominati dai consiglieri comunali delle municipalità comprese nel territorio di ogni USL: nonostante l’obiettivo della legge 833/1978 di porre le USL sotto un controllo di natura democratica, i comitati di gestione costituirono fin da subito terreno di lottizzazione da parte dei partiti, che finirono per utilizzare le risorse destinate alla sanità per fini politico-clientelari. 5. La riforma del 1992-1993 Come le precedenti (quella del 1943 approvata nel periodo della caduta del fascismo e quella del 1978 dopo la crisi petrolifera del 1973, il periodo del terrorismo, omicidio di moro e l’avvicendarsi di due papi in pochi mesi), l’occasione di una riforma della riforma, all’inizio degli anni Novanta, fu approvata in condizioni del tutto eccezionali. Infatti, nel 1992 l'Italia dovette fare i conti con una delle peggiori crisi economiche del dopoguerra, che costrinse il governo a far uscire la lira dal sistema monetario europeo previsto dal Trattato di Maastricht. Per fronteggiare la crisi valutaria e i vincoli di integrazione europea il governo Amato fu così costretto a introdurre nuove imposte e fare dei forti tagli alla spesa pubblica, uno dei primi dei quali fu quello al settore sanitario. Alla crisi economica si sommò nello stesso anno quella istituzionale, dovuta alle stragi di mafia (es. attentati a Falcone e Borsellino) e allo scandalo Tangentopoli (sette ministri del governo Amato, tra cui quello alla sanità, furono costretti a dimettersi perché indagati, e un terzo dei parlamentari dell’XI legislatura fu raggiunto da un avviso di garanzia). che coinvolse molti ministri tra cui quello della sanità che fu costretto a dimettersi. L’effetto dell’inchiesta Mani Pulite fu quello di delegittimare l‘intera classe politica e di indebolire il Parlamento. Non sorprende che in un tale clima politico l’intento principale fosse di depoliticizzare la sanità. Il Parlamento preferì delegare al governo la riforma dei settori, tra cui sanità e pensioni, ritenuti strategici per il risanamento del debito pubblico. La delega al riordino del SSN fu tempestivamente esercitata dal governo Amato, che in meno di due mesi approvò il d.lgs. 502/1992. Tale decreto fu presto bersaglio di ampie critiche da parte delle regioni e della professione medica, in particolare sulle disposizioni in tema di mutualità volontaria, che concedevano ai cittadini la possibilità di uscire dal servizio 4

pubblico trasferendo parte della propria quota di spesa sanitaria a mutue volontarie; queste ultime sarebbero state quindi in competizione con le nuove ASL e avrebbero potuto per conto dei propri assistiti acquistare servizi da fornitori pubblici o privati. Tuttavia, tale disposizione venne presto abolita dal governo Ciampi, subentrato nel 1993, il quale emanò un d.lgs. correttivo 517/1993, in cui si precisava che le mutue v...


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