LA Strage DI Villarbasse PDF

Title LA Strage DI Villarbasse
Author maddalena calligaro
Course Diritto penale - ii mod.
Institution Università degli Studi di Trieste
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Summary

Elaborazione sul caso di Villarbasse ...


Description

LA STRAGE DI VILLARBASSE – ULTIMA CONDANNA A MORTE IN ITALIA Quesito Perché, nonostante la pena di morte, in Italia, sia stata eliminata dal diritto penale civile – non dal diritto militare -, nel 1944, l’ultima esecuzione penale risale al 1947? Come si spiega questo fatto? Cenni storici sull’abolizione della pena di morte in Italia Nella storia, l’Italia è uno dei Paesi che può vantare il più lungo periodo di tempo senza la pena di morte. L’idea stessa dell’abolizione della pena di morte si concretizzò proprio nella patria del “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria (1764), nel Granducato di Toscana di Pietro Leopoldo, dove si ebbe il primo decreto abolizionista già nel 1786, operando una rivoluzione sconvolgente dal punto di vista culturale, filosofico, politico, giuridico destinata ad apportare grandi cambiamenti in tutto il mondo fino ai giorni nostri. L’idea dell’abolizione della pena di morte iniziò a dilagare e ben presto, con la nascita del Regno Italico, anche Carlo Cattaneo venne catturato da questa idea, sostenuto da giuristi come Francesco Carrara e persino da Giuseppe Garibaldi. In Parlamento la questione venne presentata da Pasquale Stanislao Mancini - padre della battaglia abolizionista - che propose alla Camera, il 17 novembre 1864, una legge che riportava: “E’ abolita nel Regno D’Italia la pena di morte”. Nonostante i grandi passi avanti che si stavano compiendo, dopo l’approvazione da parte della Camera, il 13 marzo, il Senato, di nomina regia e molto conservatore, negò il suo assenso per l’entrata in vigore della legge e insabbiò la questione. Nel 1889 il Codice Zanardelli non presentava più la pena di morte nel suo testo in quanto, nel 1877, re Umberto I promulgò un’amnistia generale che sospese le esecuzioni. Queste furono abolite per i reati civili, mentre sopravvivevano ancora nel codice militare. La pena di morte tornò in auge agli albori della seconda guerra mondiale quando, il 31 ottobre 1926, vi fu l’attentato di Anteo Zamboni a Benito Mussolini. Questo fu il giusto pretesto per reintrodurre la pena capitale, accanto ad altre misure repressive. Lo stesso Zamboni, quindicenne, venne linciato sul posto. La pena di morte contò numerose vittime, anche innocenti. Nel 1930, al Codice Zanardelli subentrò il codice Rocco, di marcato stampo fascista, che ampliava l’applicabilità della pena capitale, che tornò ad essere utilizzata anche come strumento per minacciare i cittadini e rafforzare così l’autorità del regime. La pena capitale avveniva per fucilazione, nel carcere, ad opera delle forze armate e degli agenti di polizia. Solo nell’agosto del 1944, il Codice Rocco eliminò la pena di morte per i reati civili. Tuttavia nel 1945 fu provvisoriamente reintrodotta per arginare – si disse – il disordine portato dalla fine della guerra. Le ultime esecuzioni avvennero il 5 e il 6 marzo 1947: il 5, l’ultima per i reati comuni, contro i tre responsabili della strage di Villarbesse; il giorno dopo l’ultima in assoluto, per i reati militari, contro tre collaborazionisti. La Costituzione repubblicana, in vigore dal 1° gennaio 1948, abolì la pena di morte per tutti i reati in tempo di pace, ma lasciò spazio a quelli militari in tempo di guerra. Nel 1994 il nuovo Codice penale militare di guerra sostituì la pena capitale con l’ergastolo e solo il 25 ottobre 2007 entrò in vigore una legge fatta di un solo articolo, che detta: “Al quarto comma dell’art. 27 della Costituzione le parole “se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra” sono soppresse”, lasciando solo “non è ammessa la pena di morte”. Caso Era il 20 novembre 1945 quando a Villarbasse, in provincia di Torino, un uomo, l’avvocato Massimo Gianoli, si trovava nel suo podere “Cascina Simonetto”. Una sera, l’avvocato stava cenando, servito dalla sua domestica Teresa Delfino, in compagnia di altre nove persone: il fattore Antonio Ferrero, la moglie Anna Varetto, il genero Renato Morra, due

donne che aiutano in casa, Rosa Martinoli e Fiorina Maffiotto, un nuovo bracciante Marcello Gastaldi e una bambina di due anni. Dopo cena, quattro uomini, Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D’Ignoti e Pietro Lala, decisero di entrare nella cascina con l’intenzione di compiere una rapina. Qualche mese prima, Pietro Lala si era fatto assumere come lavoratore stagionale con il falso nome di Francesco Saporito e aveva potuto così studiare le abitudini e i comportamenti degli abitanti del casale. I quattro fecero irruzione in casa, presero in ostaggio tutti i presenti e cominciarono a cercare oggetti di valore e denaro. Ad un certo punto, Pietro Lala perse il bavero che gli copriva il volto e venne riconosciuto da Renato Morra. I rapinatori, inesperti e spaventati, decisero di eliminare tutti i testimoni; gli legano le mani dietro la schiena con del filo di ferro e lasciarono la bambina da sola a piangere in una stanza. Li portarono tutti nel cortile dove vi era una grossa cisterna per la raccolta dell’acqua piovana. Giovanni Puleo aspettò le vittime sul bordo della cisterna con un bastone in mano, sferrò un colpo secco alla testa di ciascuno degli ostaggi, a turno, e i corpi caddero nell’acqua, vivi o morti che fossero, mentre la piccola ancora piangeva in casa. L’unico che cercò di opporre resistenza fu Renato Morra ma non ottenne grandi risultati, anzi incontrò la stessa sorte degli altri. Nel frattempo, Gregorio Doleatto e Domenico Rosso, mariti delle due domestiche, non vedendo le mogli tornare a casa andarono alla villa per capire il motivo del loro ritardo ma, sorpresi dai quattro, incontrarono anche loro la morte a colpi di bastone. Compiuti gli omicidi, i quattro malviventi rientrarono in casa per finire di saccheggiarla, dopodichè uscirono e si divisero: Giovanni D’Ignoti, Francesco La Barbera e Giovanni Puleo continuarono a vivere a Torino mentre Pietro Lala tornò a vivere in Sicilia. All’indomani della strage, un giardiniere si recò al podere ma non trovò nessuno e, sentendo piangere la bambina, iniziò a capire che era successo qualcosa. Lanciò l’allarme e negli 8 giorni seguenti vennero controllati i dintorni, le campagne, i canali, i casolari abbandonati alla ricerche delle persone scomparse. La tesi dell’allontanamento volontario non venne preso in considerazione perché non avrebbero lasciato la bambina da sola e, in un primo momento, si pensò, dunque, al rapimento. Tuttavia, ispezionando la cascina, i carabinieri si accorsero della presenza di tracce risalenti ad un presunto delitto. I corpi vennero trovati nella cisterna, ormai tumefatti e in fase di decomposizione. Iniziarono, dunque, le indagini per trovare gli assassini e il 4 marzo 1946 venne arrestato Giovanni D’Ignoti. Con un tranello, il D’Ignoti, interrogato, fece i nomi dei suoi complici. Vennero arrestati tutti tranne Pietro Lalla che, tornato in Sicilia, continuò a delinquere e, mettendosi contro qualche mafioso locale, venne freddato per pareggiare i conti. Il processo iniziò il 3 luglio 1946 e terminò il 5, con la condanna a morte dei tre imputati. Il ricorso in Cassazione non servì e il 29 novembre, dello stesso anno, le condanne vennero confermate. La difesa fece appello per ottenere la grazia dall’allora capo dello stato Enrico De Nicola, che oppose un secco rifiuto. Egli, infatti, non poteva e non doveva non dare soddisfazione all’opinione pubblica indignata per la ferocia di quel delitto. È la mattina del 4 marzo 1947 quando i tre condannati vennero legati a una sedia con la schiena rivolta verso il plotone di esecuzione, formato da 36 poliziotti. I condannati vennero bendati e all’improvviso l’ordine risuonò e i fucili spararono. Aspetti giuridici E’ quantomeno doveroso, innanzitutto, delineare, per sommi capi, l’istituto della pena di morte. Essa, insieme all’ergastolo, alla reclusione e alla multa è una pena principale e, come tale, viene inflitta dal giudice con sentenza di condanna. L’art. 17 del codice penale assegnava spazio alle pena di morte all’inizio delle pene principali ma oggi è assorbita nell’ergastolo. Ciò avvenne a seguito di alcuni passaggi riformatori: prima di tutto, la sua soppressione per i delitti previsti dal codice penale (art. 1, commi 1° e 2° del decreto

legislativo 10 agosto 1944. n.224), poi per i delitti previsti dalle leggi speciali diverse da quelle militari di guerra (art. 1, commi 1° e 3°, decreto legislativo 22 gennaio 1948, n.21), da ultimo, infine, per gli illeciti preveduti dalle stesse leggi militari di guerra (art. 1, legge 13 ottobre 1994, n. 589). La soppressione della pena di morte ha ampio riconoscimento nella Costituzione: l’art. 27, comma 4° Cost., modificato dalla legge Costituzionale n.1 del 2 ottobre 2007, statuisce infatti che “Non è ammessa la pena di morte”. Nel testo originario del 4° comma figuravano le parole “se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”. L’art. 25 del codice penale militare di guerra, rubricato “Luogo di esecuzione della pena di morte” stabilisce che “ Durante lo stato di guerra, la pena di morte è eseguita nel luogo determinato dal comando dell'unità, presso cui è costituito il tribunale che pronunciò la sentenza; salvo che la legge disponga altrimenti.” 1. Pena soppressa per i delitti previsti dalle leggi speciali, diverse da quelle militari di guerra (art.1, primo comma, D.L. 22. 01. 948, n. 21). L’art. 1 della legge 13.10.94, n. 589 dispone che, anche per i delitti previsti dal codice penale militare di guerra e dalle leggi militari di guerra, la pena di morte è abolita ed è sostituita dalla pena massima prevista dal codice penale. L’ammissibilità costituzionale della massima pena, limitatamente alle ipotesi di emergenza bellica, si spiegava in considerazione della loro eccezionalità: in codeste situazioni potevano essere commessi reati di tale gravità da esporre a rischio la stessa sicurezza dello Stato. L’art. 27, comma 4° Cost. lasciava libero il legislatore ordinario di valutare la possibilità o meno di mantenerla nell’ambito delle situazioni predette. Nella scienza penalistica moderna, la pena di morte costituisce un residuo arcaico rispetto alle dimensioni costituzionali dello Stato di diritto e di un moderno diritto penale. Inoltre, la pena di morte risulta essere uno strumento inadeguato al contrasto della criminalità, come dimostrato da molti studi. Perché gli autori della strage di Villarbasse vennero condannati proprio alla pena capitale? I tre assassini di Villarbasse detengono il primato dell’ultima condanna a morte per crimini comuni comminata in Italia. Fu un’esecuzione storica in quanto la decisione di abrogare la pena di morte era già stata presa, ma l’abolizione avvenne solo con la promulgazione della Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Inoltre, la particolare brutalità del delitto sollevò l’indignazione dell’opinione pubblica e ciò spinse il Presidente De Nicola a rifiutare la grazia, dando esecuzione all’ultima pena capitale. Inoltre, bisogna pensare, che il periodo storico, l’immediata conclusione della seconda guerra mondiale, aveva lasciato dietro di sé morti, situazioni di degrado, di povertà, di insicurezza generale e gli animi erano ancora scossi e desiderosi di giustizia. Dunque, la Costituzione abolì definitivamente la pena di morte nel nostro Paese con i decreti legislativi 22 gennaio 1948 n.21 – Disposizioni di coordinamento in conseguenza dell’abolizione della pena di morte - e n.22 – Ammissibilità del ricorso per cassazione proposto dai condannati alla pena di morte. Oscar Luigi Scalfaro: il pm che chiese la pena di morte per un imputato Noto a tutti come uno dei Presidente della Repubblica Italiana, Oscar Luigi Scalfaro, fu anche l’ultimo pubblico ministero a chiedere, nell’immediato dopoguerra, che un imputato fosse punito con la pena di morte. Aveva 26 anni quando si trovò a svolgere le funzioni di pm presso le Corti di Assise speciali di Novara e Alessandria. Fu lì che, a conclusione di un dibattimento, il giovane magistrato chiese l’applicazione della pena di morte. Egli fu un convinto cattolico e con questo episodio ha spesso dimostrato come la legge debba essere applicata tralasciando i propri convincimenti o le idee personali. Inoltre, questo episodio gli venne spesso rinfacciato durante la sua carriera politica e non solo. Con riferimento al dibattimento, Scalfaro sostenne che bisognava applicare il codice di guerra e, spiegò nel 1992 “non si poteva chiedere meno. Fui molto combattuto con la mia coscienza e con le

mie convinzioni. Presi dieci giorni di tempo per decidere come comportarmi: da magistrato, dovevo applicare la legge, non potevo mercanteggiare». «Ero molto giovane - raccontò - ma studiai 15 giorni gli atti processuali per vedere se ci fosse un cavillo in grado di evitare la condanna capitale. Alla fine chiesi la condanna, ma di fronte ai giudici parlai per mezz'ora contro la pena di morte e successivamente chiesi la grazia per tutti i condannati: l'imputato di cui mi ero occupato io l'ottenne” Gli altri coimputati, tuttavia, vennero fucilati e quella fu l’ultima volta che in Italia venne applicata la pena di morte. La Costituente, di cui Scalfaro fece parte, la abolì per sempre. E l’ex presidente ha sempre sostenuto che in quel momento “sentì un trionfo di giustizia”.

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