Parafrasi Alcyone - Riassunto PDF

Title Parafrasi Alcyone - Riassunto
Course Letteratura italiana
Institution Università di Pisa
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Summary

Riassunto...


Description

BEATITUDINE Come testimonia l’autografo, è stata composta a Romena il 28 luglio del 1902. Nel ms 422, risalente alla metà di agosto dello stesso anno, la poesia ha già assunto la sua definitiva collocazione. Essa funge da congedo alla primavera, chiudendo la prima sezione di Alcyone. Tematicamente si connette a Lungo l’Affrico e alla Sera fiesolana. Questa è la poesia che maggiormente evidenza il collegamento con Dante. Lo stesso titolo è ripreso dalla Vita Nova solo che qui la donna è laica e legata alla natura e non una donna angelo com’era Beatrice. D’Annunzio si rivolge direttamente a Dante, più precisamente ad un suo ritratto. Elemento importante è quello della contemplazione -> termine filosofico che rimanda al raccoglimento su sé stessi; la contemplazione dell’esterno apre a un ripiego su sé stessi, come si vede nell’Infinito di Leopardi, per D’Annunzio dunque “beatitudine” significa anche questo. I versi 1-4 -> riprendono una personificazione già presente anche nella Sera fiesolana, in cui la sera è la donna. Il metro: è una ballata grande di tre stanze, di 10 versi l’una, con inserimento di settenari in seconda, quinta e settima sede. Possiede inoltre una ripresa di quattro endecasillabi. PARAFRASI: “Color di perla quasi informa, quale conviene a donna aver, non fuor misura” (citazione dantesca tratta da Donne ch’avete intelletto d’amore, Vita nova. Suona tipo alla donna conviene aver un colorito simile alla perla, in viso, nella giusta misura) Non è Beatrice (la Bea di Dante) scesa dal cielo alla terra con il viso bagnato dal pianto d’amore (rugiada)? Essa con il suo pianto bagna tutte le spighe (la rugiada fa diventare più scure le spighe), ed una ad una le cambia il colore. Queste stanno come se fossero delle persone inginocchiate davanti a lei, con la testa bassa, umili; e sembra che ognuna goda del martirio ormai vicino (mietitura). Il silenzio della sera vince sui sentimenti umani. Nella cerchia dei monti soffusi di aria luminosa l’Arno assume i colori del cielo (fino a confondersi con esso). àààààààLa città (Firenze) nascosta altro non mostra che le due torri del palazzo della Signoria e del Duomo a noi, cara com’era al suo cittadino Dante prima dell’esilio, quando egli teneva in mano il giglio e chinava il viso tra i due lati del copricapo rosso (le rosse bende) - EVIDENTE CHE -SI RIFERISCE AL RITRATTO DEL BARGELLO Il colore perlato si diffonde ovunque, il cielo è molto vicino, tanto che ogni pensiero vi vola leggero. La terra si è sciolta nell’infinito sorriso (quello di Beatrice) che la satura, e da noi si allontana avvolta progressivamente dalla sera (fa buio, quindi non si possono più percepire i contorni) mentre l’angelo (l’Angelus) serale chiama e dice «O re, nel mondo si vede un miracolo incarnato che si manifesta in un’anima [Beatrice] e che risplende fin quassù» (anche questa cit. proviene da Donne ch’avete)

FURIT AESTUS DATA: data ignota ma il titolo è già compreso nell’elenco dei testi del 1902. METRO: tre stanze di otto endecasillabi, clausola tronca dell’ultimo verso. (i componimenti preditirambici hanno tutti la stessa struttura metrica). Il componimento è incentrato sulla figura di un demone meridiano che si manifesta e propone le sue visioni durante il meriggio, è una concezione simbolista per la quale le migliori sensazioni arrivano nel momento di luce più forte, contrapposta alla visione romantica secondo la quale le migliori sensazioni arrivano al crepuscolo, questa simbolista è una visione più metafisica che onirica (che invece è utilizzata dai romantici) . Si assiste anche a un cambio di toni e di ambientazioni, che anticipano quelle del Ditirambo I.

Un falco stride sotto la luce del meriggio e tutto il cielo si lacera come un velo. Brivido, sui mari silenziosi, soffio, indizio di un temporale che sta per scoppiare, sangue mio, come lo sono i mari durante l’estate. L’energia, sotto la terra, intreccia le radici degli alberi, restando nascosta e immensa. La pietra brilla più di ogni altra cosa inerte. La luce è accompagnata da un perfetto silenzio, come un occhio che, fermo, nasconde una folle abbondanza di desideri. Il mistero mi raggiunge, lo attendo! Quello che mi è stato vicino ora è lontano, quello che mi è sembrato essere vivo ore è morto. Ti amo, pietra affilata che brilli, pronta a ferire il piede scalzo nella salita ripida. Mia sete atroce, sei per me più importante di tutti i ruscelli di acqua dolce. La febbre vive all’interno della mia pace selvaggia, così come nelle paludi. Il mio petto riposato è pieno di urla e sento che l’ora è arrivata, mio raccolto. La tua mietitura, a mezzogiorno, è un terribile peso per il mio cuore.

NOTE: (V1-2)-> Termini forti, come “stride” e “squarcia”, sono rappresentazioni di un cambiamento rispetto ai componimenti precedenti dove la maggior parte dei termini erano addolciti da allitterazioni. (V.9) -> Viene ripreso il concetto di silenzio e di staticità, associato alla luce. (come se la luce meridiana paralizzasse la natura nell’attesa di un prodigio). (V.10) -> L’occhio e la luce sono legati al cristianesimo. (V.12) -> Il verso è ripreso da “Maia”, si parla di ignoto perché tutto quello che vedeva si sta allontanando e l’atmosfera che rappresentava il paesaggio sta svanendo.

DITIRAMBO I Composto, come prova l’autografo, a Romena il 1° agosto 1902. È stato pubblicato per la prima volta nella rassegna internazionale del successivo 1° settembre col titolo generico di Ditirambo. Il titolo specifico di Ditirambo I appare per la prima volta nel ms. 421 databile luglio 1902, mentre nel ms. 422 risalente all'agosto 1902 occupa la posizione che sarà definitiva. Il componimento è denso di reminiscenze classiche, anche semplicemente lessicali; il nucleo tematico è esile. C'è il desiderio di visitare luoghi mitici quali Roma e il Circeo, dove giunsero Ulisse ed Enea. Il metro: versi liberi distribuiti in 9 strofe di varia lunghezza e di diversa forma ritmica, dove il verso finale di ogni strofa rima con quello iniziale della strofa seguente, ad eccezione delle ultime 2 strofe. PARAFRASI: dove sono i cavalli dotati di una criniera fiammeggiante che guidano il cocchio del Sole? Le lunghe code ornate di nastri color porpora, le unghie adornate di lampi sulle spighe disseccate? Dove i divertimenti (i circhi) che fa il terreno, in cui la trebbiatura è come una lotta, e i contadini come atleti? Dove i cavalli del Sole, staccati dal carro celeste? Dove le fruste sonanti, le redini lunghe scacciate (sbandite), il suono delle parti metalliche dei finimenti (tinnir -> verbo onomatopeico frequente anche in Pascoli), il luccichio delle groppe sudate? Dove le urla, dove i canti, dove i balli? Dove la femmina bella coperta di pula e di resti di cereali come se fossero oro e gemme? Dove gli scherni, le lotte, i coltelli sfoderati, il sangue che ribolle, il giovane che cade morto sulla biada, bagnata dal suo sangue e dal suo vino rosso? Dove la tua potenza, o Dioniso, il tuo riso, il tuo furore, la tua pericolosità? Qui la messa è scarsa per gli uomini qualunque, la terra stretta, la fatica lieve, le mani sono caute, le voci deboli. O Maremma, o Maremma (nello specifico il poeta intende il tratto laziale), bellezza crudele (a causa della malaria) nata dalla Febbre (divinizzata, come era anche per i romani ) e dal Sole, o

inferi della terra (regni diurni di Dite -> il signore degli inferi; l’espressione è derivata dal clima mortiero della malaria), siete voi i sogni della mia anima! O Roma, o Roma, la prima davanti alla faccia del Sole, forza che non si può consumare, discendenza di gloria, alta e feconda spiga, unica nel tuo genere e nata dal solco di Romolo (il violento), l’anima mia ti sogna e ti brama in un mare di frumento, dal Cimino solitario ai colli dei Volsci (popolazione di ceppo osco-umbro), fino al Minturno (città ausonia nei pressi della foce del Liri) dove il fiume si trasforma in palude e dove si nascose per qualche giorno Mario (fuggito da Roma per le proscrizioni di Silla nell’88 a.C.), fino a Sinuessa (città dell’antico Lazio ai confini con la Campania) ubriaca del vino prodotto ai piedi del monte Massico fino alle porte auree della Campania, terra promessa (così detta perché molto fertile), in un mare di frumento innumerevole come le popolazioni su cui Roma ha trionfato! O rocca e centro della terra, nell’allontanarmi da te, al cospetto dell’Agro romano (pianura) ebbi un presagio cruento che mi scatenò amore per tutti i tuoi altari e tutte le tue tombe. Vidi un campo di rossi papaveri come un letto di strage, come un fiotto di sangue fresco che sgorga da una grossa ferita. Non avevo mai visto un rossore più caldo e rovente con i miei occhi, e tutta la mia vita sentivo che stava tremando alle radici, come se fossi io a perdere tutto quel sangue sul tuo sacro suolo, con delle vene giganti. E l’anima che si allontanava, con impeto si volse a te (Roma), accesa dal dolore scottante che sentì stridere come un legno nel fuoco vivo; era protesa verso di te, gridava il tuo nome ai papaveri mentre era sul treno che l’allontanava da te (come se l’anima del poeta fosse mandata in esilio dal treno su cui viaggiava). Tra tutti i mali, all’anima (del poeta) parve il peggiore quello della dipartita; si sentì priva di ogni vitalità, priva di ogni forza, e debole e stanca e si piegò sull’aspra ferita, ahi, vide sé stessa lontana. O Toscana, o toscana, sei dolce nei tuoi giardini circondati da siepi spinose e cinte di cipressi; sei dolce con le tue colline bagnate dai ruscelli e abbellite dagli ulivi. Possiedi virtù nelle tue torri e le tue mura rinforzate che costruisti per la guerra civile; i tuoi sepolcri scolpiti sono pieni di morti illustri, o Firenze, o Firenze, giglio di potenza, arbusto primaverile; e certo è grazioso il paesaggio della valle dell’Arno in primavera, coperto di fiori, sogni e pace, è dove giace Simonetta Cattaneo (ispiratrice di poeti e artisti fiorentini). Ma la culla della mia anima è il solco del carro che stride nella pietra della via Appia. Ai piedi del Celio (uno dei sette colli) scarsamente frequentato, sotto la Porta Capena sentì gemere l’antico acquedotto (acqua marcia) che fornisce da bere alla città ardente. Si mosse di lò, fra i sepolcri (posti lungo quasi tutto il percorso della via Appia) e gli allori, fra la morte che attende e la gloria che va consumandosi, ai colli Albani di aspetto ridente. Lasciò dietro a sé le fresche ombre delle piante di lauro; non vide più la lunga catena rossa degli acquedotti romani; non vide più l’attuale Palestrina ; sdegnò i frutti dell’attuale Frascati, la boscaglia cedua di Aricia; arrivò in fretta alla spiaggia del tirreno, dove dura intensamente la schiuma delle onde sul mare agitato, alle regge di Circe dove Odisseo urtò la nave. Bramante al deserto di luce (le paludi Pontine), piene di vapore che avvelena (infestate dalla malaria) e rapisce gli spiriti che vagano, talvolta senza meta, scoprì la rupe chiara dove la città di Anxur sembrava sospesa nell’aria assolata, su di una collina vicina sia al mare che alla palude Pontina (malsana) La via Appia, un cammino pieno di sole che va in contro all’Austro (vento che viene da sud), o via Appia, che dalla Porta Capena in cui l’Acqua marcia scorre nascosta e senza sosta, dove porterai la mia anima che arde di avido desiderio? Non qui dove la mietitura è già avvenuta.

A mietere il grano alto mille falci instancabili lavorarono ogni solco, dall’aurora fino al tramonto, per nove aurore e per nove tramonti, in una terra sconosciuta. E si sentiva ad ogni meriggio (l’ora panica) che dall’orizzonte cocente veniva la voce ed il rombo del dio Pan sopra di noi. E i lavoratori gridavano, invasati dal delirio panico: E per i resti della mietitura i buoi, chiari, sottomessi al giogo dei carri agricoli e messi davanti ai cumuli di covoni per essere caricati sui carri, mugghiavano di spavento O Pan, dammi il mio cereale, l’oro del mio grano su cui soffia l’Austro libico e la furia dei cavalli del Sole! Qui non ebbi le mie terre, non ebbi le mie paludi, ma nel grande Lazio del Tirreno, fino a Minturno, Sinuessa, nella terra del Massico, di Cecubo, a Fundi (tra Terracina e Formia, sulle rive di un lago), ad Amicle (colonia achea vicino Gaeta), alla città fondata da Danae (figlia di Acrisio re d’Argo), Ardea, dove brucia il sangue di Turno, e sulla spiaggia del golfo di Gaeta, che prende il nome dalla nutrice di Enea, Caieta (che morì in quel luogo), di qua dal rapace Volturno, presso lo stagno formato dal fiume Numicio, silenzioso, abbondantemente rivestito di canne palustri e alghe, dove il re latino (sovrano del Lazio al tempo in cui arrivò Enea) trovò la pianta di alloro che consacrò ad Apollo, e dove ad Anzio si rifugiavano le navi dei pirati che infestavano la costa, e dove nacque il crudele imperatore (Caligola o Nerone), e ad Ostia (porto commerciale e militare di Roma), nella foce del Tevere, piena di prue e vele, occupata da spaziosi granai. Ovunque falciai e trebbiai nel Lazio sul Tirreno, alle porte di Urbe e all’estremo confine, fra il Tevere ed il Garigliano (Liri), in ogni sua fertile parte. A te vanno i miei sospriri, monte Circeo, che con la tua ombra conduci alla morte come il veleno e la formula magica che Circe cantava, che tenne sveglio Odisseo nel suo letto. Qui ancora regna nel monte la dea astuta, figlia del sole; e spia del palazzo edificato sulle rupi, tra le sue fiere maculate e le sue tazze piene di veleni ricavati dalle radici (con cui la dea trasformò i suoi compagni in porci). Gemono prigionieri i suoi amanti, bestie per il suo piacere, a cui ella tocca la fronte con il bastone e sussurra parole. E i suoi pastori con le loro lunghe aste, figli dell’Evia (baccante) e del Centauro generati nell’ora che spinge uomini e animali all’unione carnale, di pelle color bronzo e dal pelo fulvo-rossiccio, figli incontrollabili, qui sotto nella palude gettano un ululo rauco e pungono i bufali con manto scuro e le code senza pelo, che sprofondano nel terreno fangoso della palude, che si piena di corna. E quando si fa giorno, tutta la piana paludosa sembra soffiare come i bufali che alzano il muso dal fango, picchiettata dagli occhi delle bestie; l’acqua putrida gorgoglia trattenuta dalle radici delle erbe in cui si intriga il piede diviso in due (lo zoccolo dei ruminanti), mentre da sinistra uno stormo di corvi offusca e produce rumore quando passa nella silenziosa nebbia che vela la morte . Qui vi farò il mio raccolto, qui batterò il mio grano, in un’aia vasta come un campo per un esercito schierato. Dove sono i cavalli dotati di una criniera fiammeggiante che guidano il cocchio del Sole? Le lunghe code ornate di nastri color porpora, le unghie adornate di lampi sulle spighe disseccate? Dove i divertimenti (i circhi) che fa il terreno, in cui la trebbiatura è come una lotta, e i contadini come atleti? Dove i cavalli del Sole, staccati dal carro celeste? Dove le fruste sonanti, le redini lunghe scacciate (sbandite), il suono delle parti metalliche dei finimenti (tinnir -> verbo onomatopeico frequente anche in Pascoli), il luccichio delle groppe sudate? Dove le urla, dove i canti, dove i balli? Ecco lo spettacolo, ecco i cavalli!

Chi li guida? Ecco le fruste, ecco i crotali (strumenti a percussione), i cimbali (simili ai crotali) che vincono il rumore dei cuori, le donne scalze e con una veste cinta con una cintura, piene di luce, i giovani forti come tori, pieni di entusiasmo. Ecco il centro del sangue latino. Ecco i recipienti in pelle di capra pieni di vino. Ecco il mosto cotto (sapa) dolce e mescolata al vino. Ecco il pane secco che fa venir sete. Ecco la tazza di creta, modello antico ma sempre bella nei secoli, ampia come un cranio di bue, rosata come una mammella. Ecco tutto lo spettacolo! Lasciate tutte le spighe che possono essere contenute nella mano (manipoli -> latinismo) sull’aia infuocata come un vulcano, versatele dalla vostra mano inclinata come una cornucopia. Tutta la terra è rossa, più che della rossa terra che si importava da Sinopie agli occhi offuscati. Il vento forma dei vortici che alzano la polvere. I palustri stanno versando nella terra le spighe dorate, che emettono una specie di stridio quando vengono scaricate. Sparisce il suolo caldo come il fuoco sotto l’ammasso abbondante. Solo un mucchio di grano, è diventato un solo monte dorato. Tutto il Lazio è un residuo dalla mietitura che brucia e si dissolve in cenere, da Sinuessa Massica fino a Roma romulea. Solo un mucchio di grano, è diventato un solo monte dorato; e i cavalli vi salgono scalpitando! O Roma, questo è il monte Cerere (corrisponde alla dea greca Demetra), la madre di Proserpina, questo è il monte della Magna Madre (Cibele) che navigò anche il Tevere (Secondo la narrazione di Tito Livio la statua di Cibele fu portata a Roma). I cavalli straordinari eretti sugli zoccoli vi salgono scalpitando! Crollano i drappi, con l’urto si spezzano gli steli delle spighe che a loro volta si allargano, e gli involucri dei chicchi volano. Scalpita, scalpita! Le fruste schioccano e balzano come fulmini. Come i cavi degli ormeggi della nave in pericolo in mezzo ad una raffica, si tendono le redini. I polsi umani battono, i muscoli vibrano, le arterie si gonfiano. Chi osa reggere la forza dei cavalli di Apollo? Balzano e si impennano le fiere, percuotono l’aria, con i quattro zoccoli ferrati si rompono i cumuli. Le lunghe code (mai tagliate) si inarcano, le criniere sventolano come dei vividi vessilli, le narici espirano fiamme, gli occhi sono pieni di sangue, i fianchi pulsano (aprono e chiudono velocemente per la respirazione), le vene si gonfiano, mostrandosi, e nelle ampie groppe si rivelano rivoli di sudore, nel muso dei cavalli che si tengono fermi a fatica la bocca si schiuma e brillano gli iridi. Scalpita, scalpita! Tutto il fuoco dell’anima caratteristica della belva si sprigiona nella forza e nell’affanno di illuminare i corpi tesi nello sforzo, su cui il sudore freme come un’ala invisibile. Si sveglia nei loro rapidi cuori la brama di essere come Pegaso e di seguire il cammino delle stelle? Scalpita, scalpita!

Il vento soffia, riunisce in mucchietti inutili lo scarto della spiga. Dappertutto vola dell’oro (i resti delle spighe dorate), dove passano le saure con la groppa scura e maculata e dove si sentono gridi rauchi, schiocchi, sibilii, il suono dei crotali, il tintinnare dei cimbali, il mugghire delle bufale, il riso delle donne che Bacco (Libero) eccita. Ma il cielo si apre in silenzio sullo spettacolo; da lontano tace il Tirreno (mare infero), dove il figlio di Venere (Enea) gridò dalla prua della nave che lo portava da Troia (anche se Virgilio narra che questo gridò fu lanciato dai compagni e non da Enea). E l’ombra del re di Itaca (Ulisse), l’ombra del vecchio marinaio esperto di uomini e mari, guarda il Circeo, per vedere se il fato lo chiami ancora ad affrontare un pericolo maggiore. Forza, Abbondanza (onorata dai romani), Vittoria, voi siete testimoni dell’opera di bonifica dell’Agro Pontino! Il Lazio è illuminato da voi. La luce del giorno cangiò in un color porpora. Il vento cessa. L’aria penetra la terra. Nelle cose sembra che nasca una vita indescrivibile, pare che le antiche divinità romane, reduci dalle ombre delle origini, rivivano nella terra, nell’acqua, nelle pietre, e più giù, nella città di Laurento, nella reggia del re Latino, che fu figlio di Marica e di Fauno, ritorni verde il Lauro, che fu sacro ad Apollo, prima che il vedevo di Creusa (Enea) venisse per congiungersi in matrimonio con Lavinia (figlia di Latino), la vergine fertile! O meraviglia! O metamorfosi! Sulla grande area, in origine quadrata come la città di Saturnia, il pressare del raccolto al tramonto dà l’idea di una nuvola che si imporporea. Scalpita, scalpita! Ed i cavalli sono rosati, come se nel loro sangue si stesse accendendo subito un’aurora, e per i loro fianchi fumanti si filtrasse. Si drizzano ed il loro petto ed il loro ventre risplendono, dove si intrecciano le loro vene gonfie, intrigate come l’edera sui tronchi degli alberi. Spiriti fiammeggianti escono dalle narici. Scalpita, scalpita! Ora gli uomini sentono che un ritmo controlla i cavalli dall’unghia solida. O meraviglia, O metamorfosi! Ecco le ali solari (titanie -> il sole è considerato figlio di Titano Iperione), le piume portatrici di luce, le instancabili fruste del cielo (...


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