Riassunto Barilli Informale PDF

Title Riassunto Barilli Informale
Course Storia della moda contemporanea
Institution Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM
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Cap. 12: L’informale 1. Gli anni Trenta tra astrazione e rivolta selvaggia. Gli anni ‘30 rappresentano il decennio meno creativo del XX secolo, in quanto, in tale periodo, non nascono movimenti propriamente nuovi. Si tratta di un decennio di transizione: da una parte si consolidano le tendenze artistiche già emerse in precedenza, dall’altro invece si colgono i primi sintomi della futura stagione dell’Informale. Il consolidamento delle precedenti tendenze artistiche riguarda per lo più le poetiche dell’astrattismo (termine ambiguo, si preferisce infatti la definizione di arte “concreta”). Per il legame che queste forme “concrete” hanno con la geometria esatta, euclidea, che quindi ha a che fare con le macchine, si può parlare di morfologia meccanomorfa. È proprio questo filone di forme concrete meccanomorfe ad ottenere, negli anni ‘30, un consolidamento rigoroso. Ciò indica il termine della fase “implosiva” del ritorno all’ordine e di recupero dell’antico. In quegli anni la Germania e la Russia, per via delle dittature nazista e staliniana, non offrono un ambiente propizio agli artisti. Per questo motivo, ancora una volta, il centro e il luogo di fusione delle nuove ricerche artistiche diviene la capitale francese di Parigi. A Parigi nel 1930 infatti viene fondato, per opera degli artisti Michel Seuphor e Torres Garcia, il raggruppamento “Cercle et carrè” (i due termini del binomio corrispondono alle unità di base del linguaggio concreto-razionalista). L’anno successivo il raggruppamento si dà un’altra denominazione: “Abstractioncréation, art non-figuratif”. Tra gli artisti di questo raggruppamento troviamo: Auguste Herbin, Alberto Magnelli e Ben Nicholson. Un ambiente altrettanto fertile per queste ricerche “concrete” è l’Italia, in particolare la Lombardia, il territorio tra Milano e Como. Artisti come Atanasio Soldati, Osvaldo Licini, Mauro Reggiani e molti altri, entrando a far parte di questo nuovo raggruppamento di artisti, voltano per così dire le spalle al Novecento e a quelle prime tecniche che avevano sperimentato. Tra questi artisti italiani, partecipi dell’Astrattismo lombardo, emergono in particolar modo: •





Luigi Veronesi: egli tenta di reintrodurre un programma simile al Bauhaus nella capitale lombarda (una forma simile al Bauhaus già era esistita in Italia ma venne sciolta a causa dell’involuzione autocratica tedesca). Egli alterna le ricerche di geometrismo “concreto” a prove con il mezzo alternativo della fotografia senza camera, ovvero usata in modo da ottenere l’impatto diretto degli oggetti su una superfice fotosensibile. Per lui l’arte deve essere bella ma anche utile. Fausto Melotti: In lui si possono cogliere elementi che vanno oltre il solo concretismo geometrico. Rimane costantemente presente in lui un passato novocentista che non ripudierà mai del tutto, egli tuttavia riesce a trasferire i gonfiori metafisici in moduli asettici dando loro un esito spaziale. Nelle sue composizioni, oltre all’apertura spaziale, vi è un’apertura agli altri ambiti sensoriali: più che le vista sembrano stimolare l’udito, un orecchio interno alla mente, attingendo quindi a una dimensione noetica oltreché estetica. Lucio Fontana: Anche in lui c’è un passato novocentista ma anche la sua ricerca è fondamentalmente “aperta”, egli infatti cerca di occupare tutta la gamma delle reazioni sensoriali. Gli elementi di cui si vale sono molto “ridotti”, portati quindi ad agitare uno spazio mentale piuttosto che sensoriale. Egli tuttavia alterna anche filoni di esperienza decisamente sensoriali, fenomenici.

Una figure invece isolata è quella dello statunitense Alexander Calder. Egli dopo aver praticato, in un primo momento, un’astrazione fauve trasferisce le sue figure nella tridimensionalità del fil di ferro, che si muove libero nello spazio, non appesantito da eccessivi volumi. Successivamente egli converte il linguaggio

figurativo nel rigore di moduli concreti, derivanti dal paradigma biomorfo di Mirò, con la differenza che le sue figure sono libere nello spazio, leggere, quasi sottoposte all’intervento del caso (dell’aria), mentre quelle del maestro rimangono intrappolate nella superfice. Celebri in questo senso sono i “Mobiles” e gli “Stabiles”. Tuttavia anche in Calder, come in Mirò resta il limite eidetico (i profili mantengono una compostezza ideale che accenna alla possibilità di uno sviluppo quantitativo e fenomenico, ma non è ancora in grado di realizzarlo compiutamente). In base a quanto appena riportato si può affermare che il superamento dell’implosione metafisico-magica, quando è effettuato dalle tendenze concrete, astratto-geometriche, risulta pesante, statico e un po' scolastico, senza alcuna novità. Così invece non risulta se si considerano le vie che si stanno percorrendo di una figurazione selvaggia, neoespressionista, protestataria e riduttiva, il cui primo atto sfoca nel rifiuto della prospettiva e dei volumi plastici. Queste vie in Francia sono animate da artisti come Jean Fautrier e Tal Coat. Queste tendenze artistiche giungono anche in Italia e si sviluppano in modo spontaneo in tre nuclei differenti così denominati: i Sei di Torino, il Chiarismo lombardo e la Scuola romana. La reazione anti-Novecento è così divisa in due fronti opposti che tuttavia peccano di uno stesso limite: entrambe le tendenze seguono linee non nuove ma che si rifanno al passato. Il filone concreto rilancia una scolastica di geometrismi meccanomorfi, l’altro filone si riaggancia invece agli espressionismi, precedenti alla fascia cubo-futurista.

2. Picasso e il post-cubismo. Un’astuta e abile mediazione, proprio tra questi due filoni, viene proposta, negli anni Trenta, da Pablo Picasso. Egli, in un certo tipo di produzione, mantiene la plasticità “mediterranea” del periodo archeologico ma riporta i copri ad uno stadio elementare, di sfere, tubi, cilindri, montati tra loro in modi rudimentali, tanto da farli apparire dei mostri preistorici (tale soluzione è molto amata dai Surrealisti). Spesso questi corpi mostruosi sono congiunti da esili tratti filiformi, da cui egli trae spunti per giungere a soluzioni ardite, aeree, attraverso le quali egli si avventura in nuove dimensioni plastiche. Ancor più di frequente Picasso ritorna all’à plat del Cubismo sintetico (riaccostandosi a Braque, che però risulta ormai estremamente pacato, abbandonato alle dolcezze delle raffigurazioni di interni). Picasso, che predilige i temi della figura, ricorre per questi, ad una violenza, frutto anche degli umori selvaggi e neoespressionisti della linea anti-Novecento. La differenza però sta nel fatto che il maestro non abbandona il linguaggio “ricostruttivo”, lo propone però con furia e non curanza. Qui Picasso giunge al massimo di tangenza con le nascenti ricerche dell’Informale. Agli anni ’30, specificatamente al 1937, risale il grande murale Guernica, un quadro ispirato a un massimo impegno etico-politico. In questa celebre composizione la drammaticità dei contenuti è accompagnata da un linguaggio che tradisce disinvoltura e accademismo alla rovescia, l’artista infatti realizza invenzioni plastiche mostruose e accelerate, dove però la presenza antropocentrica continua a primeggiare. Dopo un dipinto con una tale tensione contenutistica Picasso scivola in temi aneddotici. Un esempio di ciò è il dipinto “Pesca notturna a Antibes”. Nonostante questa sua ultima fase pittorica l’impatto che egli ha avuto sulle future generazioni di artisti è certa. Gli artisti successivi che si rifanno al maestro, pur assai quotati, si limitano a sfruttare e esasperare l’una o l’altra delle vie picassiane. Artisti come, ad esempio, l’inglese Henri Moore, che è l’erede dei nudi mostruosi picassiani. Egli ha la volontà di andare oltre, di raggiungere un qualche grado di articolazione fenomenica, questa tuttavia nel complesso risulta bloccata.

Questo periodo di stallo verrà superato solamente negli anni Quaranta, negli anni subito successivi alla seconda guerra mondiale, in particolar modo in Francia, a Parigi. Tuttavia negli anni Quaranta persisterà l’eredità congiunta Picasso-Braque, quello che potremmo definire Post-Cubismo, cui si aggiungeranno altri influssi (Kandinsky, Mirò, Ernst ecc.). Questo compresso è stato definito dall’italiano Lionello Venturi “astratto-concreto”, in quanto l’eredità del Cubismo, del suo linguaggio concreto e geometrico, è accompagnata da una necessità di astrazione nel senso etimologico del termine. Artisti identificabili in una simile situazione astratto-concreta: vedi fine del paragrafo 2, pag. 251.

3. Fautrier e la ricerca dello stato nascente. Gli artisti più risoluti, decisi a “voltar pagina” e a porre le basi che porteranno all’Informale sono Jean Fautrier e Jean Dubuffet. Entrambi fanno parte della generazione successiva a quella dei maestri cubo-futuristi, ma forse sono gli unici che non hanno vagliato quelle tappe, che non hanno mai adottato un linguaggio meccanomorfo. Fautrier nel corso degli anni ’20 e ’30 pare identificarsi con le posizioni di ritorno a realismi-espressionismi. I temi delle sue composizioni sono di una grande pochezza e modestia. La resa è differente da quella degli Espressionisti, non avviene dall’esterno verso l’interno, non è violenta nei contorni, ma la furia tipica espressionista risulta a livello embrionale, nel nucleo delle figure raggomitolate e rattrappite attorno ad esso. Si possono scorgere infatti, in Fautrier, le potenti e anticipatrici aggregazioni centripete dei dipinti giovanili di Cézanne. Con questo artista infatti è come se si tornasse all’atto inaugurale dell’età contemporanea, cancellando l’ “eresia” del linguaggio meccanomorfo. Naturalmente il linguaggio di Fautrier è da dirsi biomorfo, tuttavia esso non è da ricondurre al modello elettromorfo. Proprio in questa caratteristica si può cogliere il senso storico generale da attribuire all’Informale. L’informale è in primo luogo un radicale rifiuto dell’ipotesi meccanomorfa, che non riuscendo ancora a proporre un modello spaziale alternativo, chiede alleanza all’ambito dei fenomeni organici, cellulari, biologici, forme più capaci di “resistere” alle macchine o ai prodotti industriali. Alla base di tale concetto sta la filosofia freudiana dell’eros, l’impulso primario del principio di piacere. Fautrier anticipa in pittura quello che un altro filosofo, l’erede di Freud, Marcuse, sosterrà, ovvero che il passaggio alla civiltà elettronica potrebbe liberare una vasta quota di energie libidiche. Ciò sta alla base del ricorso di tutti gli artisti Informali a forme basse, genetiche, “primarie”. Fatti storici che hanno influito sull’avvento della stagione dell’Informale: •



La Seconda guerra mondiale e le bombe nucleari: tali eventi hanno portato ad un crollo generale di fiducie nel progresso strettamente connesso con lo sviluppo della tecnologia meccanica e dell’industrialismo pesante. Ciò è avvenuto dal momento che l’apparizione sulla scena pubblica di nuove risorse tecnologiche si caratterizzava nel segno della morte. Si tratta comunque di eventi di superfice che devono essere letti più opportunamente come sintomi di un grande mutamento culturale. Fautrier infatti era già sulla strada di questa regressione ai valori primari. Cambiamenti nell’ambito del pensiero: in quegli anni Sartre ha reinterpretato le teorie di Husserl, facendo ciò ha quindi posto fine al carattere eidetico, tipico della riflessione filosofica del primo Novecento. Al contempo Sartre e il suo collega Ponty hanno accentuato la presenza della sfera primaria, fluida, dominata dalla logica del campo, inteso come campo percettivo, sessuale e affettivo. Insomma, sul fronte del pensiero il secondo Novecento rivela una vocazione quantitativa, esistenziale e fenomenica.



Fattori interni alla vita degli stili artistici. Il passaggio dal panorama cubo-futurista all’Informale è evidente e marcato dalle grandi differenze: si passa da una luce intellettuale, noetica alle tenebre, dalle forme scandite dal disegno a delle slabbrature imposte dall’usura esistenziale, la bidimensionalità della superfice lascia il posto alla simulazione di rilievo, di tridimensionalità che tuttavia ancora non è totale.

I dipinti di Fautrier dal 1920 al 1940 potrebbero essere considerati come delle sequenze cinematografiche dedicate allo sviluppo di un embrione, ma alla rovescia; da una fase avanzata dove l’organismo è riconoscibile in tutti i suoi attributi, a una fase iniziale di molle e informe gonfiore. Inoltre è da considerare anche l’ambiguità di quel feto o embrione che rende difficile stabilire se si deve ricondurre a una pulsione di vita o di morte. In queste sequenze è da notare anche una bellissima tensione reciproca tra lentezza, pesantezza, consistenza vischiosa del nucleo, e la leggerezza divagante dei profili lineari. A partire dagli anni ’40 fino al 1962 (morte dell’artista) tale sviluppo sequenziale dei dipinti si arresta. Fautrier inizia a proporre morfologie costanti, consistenti in masse di colore-pasta denso e grumoso, poste al centro del dipinto. L’artista con ciò tenta di andare oltre alla bidimensionalità con la stesura di un colore materia, effettuata con l’uso di un coltellaccio (strumento estraneo fino a quel momento alla tradizione delle “belle arti”). Un’altra particolarità nata con Fautrier sta nel fatto che egli realizza i suoi dipinti lavorando su una tela posta su di un tavolo, e affrontata nei quattro lati in modo indifferente e discorde, ciò implica di conseguenza un rapporto non più contemplativo con il quadro che richiede oramai che gli si giri intorno. Si tratta di un’esperienza più comportamentale che ottica. Negli ultimi anni Fautrier osa per fino sfidare gli oggetti inorganici come scatole e contenitori, sostenendo che anche questi hanno una matrice organica alla base (tale concetto sostenuto anche dal filosofo Husserl).

4. Dubuffet e l’Art brut. Dubuffet rifiuta in maniera ancor più radicale, rispetto a Fautrier, tutte le avanguardie del primo Novecento. Infatti dopo qualche prima prova giovanile egli abbandona completamente la pittura per riprenderla dopo circa un ventennio, nel 1940, e dimostrare in essa una fecondità eccezionale. Egli in qualche modo ricomincia da zero, con una figurazione elementare e regressiva (“bruta”), che si ispira al disegno infantile. Si tratta di una figurazione che rappresenta le nozioni più che i dettagli, oppure si sofferma a sproposito su qualche dettaglio anatomico. Nei suoi dipinti inoltre non c’è preoccupazione di scala, di proporzionalità o di omogeneità. Il disegno delle sue composizioni segue infatti i flussi del piacere. Alcune serie di dipinti da ricordare sono “Marionette della città e della campagna” e “Mirobolus, Macadam e C.ie”. Quest’ultima serie ha nel titolo la parola “macadam”, ad indicare il volgare e brutale catrame usato nelle città per asfaltare le strade. Per la prima volta così una sostanza “reale”, con un preciso rilievo e ingombro fisico, fa il suo ingresso nella pittura. L’utilizzo di questa sostanza implica, nei dipinti dell’artista, un rallentarsi dello scorrere del tracciato narrativo e un ulteriore caduta di dettagli superflui. Con Fautrier ci sono molte tangenze ma altrettante differenze. In Dubuffet materia e figura si pongono entrambe a un livello molto basso, in uno scontro reciproco che implica moltissime varianti: innanzitutto l’urto frontale tra il solco figurativo e la pasta-colore. Altre serie di Dubuffet da ricordare sono “Più belli di quel che credono”, “Corpo di dame”, “Paesaggi grotteschi”, “Tavole-paesaggio”, ecc. Fin qui lo scontro tra nozioni primordiali e la pasta risulta frontale. Tuttavia, in seguito, l’artista sviluppa un’altra faccia del principio materico, quella secondo cui esso si offre come divisibilità infinita, vibrazione.

Dopo la metà degli anni ’50 Dubuffet inizia a realizzare come dei tessuti maculati, chiazzati, ricollegandosi alla tecnica del frottage usata da Ernst. Una volta costituito un ampio patrimonio di questi tessuti l’artista riprende il suo solito conflitto con le figure. Negli ultimi anni ’50 invece l’artista vuole in qualche modo celebrare il suo gran finale, tutto a favore del principio materico, illustrato però attraverso il motivo vibratorio e i tessuti variegati. Decisive in questo senso sono due serie di dipinti: “Fenomeni” e “Materiologie”. Dopo questo affondo nel principio materico Dubuffet è pronto a ritornare alle figure, rieditando le serie da cui era partito, le marionette, i pupazzi alle prese con le incombenze della vita metropolitana (Paris circus). Inoltre, negli anni ’60, vi è un ritrovamento di fiducia nella tecnologia meccanica e nell’industrialismo produttivo, ciò fa apparire nell’opera dell’artista “Paris circus” la merce principe di quella fase socio economica, ovvero l’automobile. Dubuffet non rinuncia alle sue tipiche figure primordiali, che mantegono il primato nelle sue opere, ma al contempo si trova a doversi misurare con oggetti artificiali, con prodotti industriali. L’artista fa un passo ulteriore nel 1962 mettendo a punto una cellula di base, straordinariamente ambigua, sospesa a metà tra i richiami della biosfera e quelli dell’universo artificiale del progetto produttivo. Una cellula sinuosa e sciolta ma anche dal segno sicuro e perentorio. Nasce così il ciclo dell’ “Hourloupe”, un ciclo che durerà circa dieci anni e che consentirà all’artista di dialettizzare con le nuove generazioni. In tale ciclo pittorico l’artista non si risparmierà inoltre nello sperimentare l’occupazione diretta dello spazio fisico, la tridimensionalità.

5. La derivazione surrealista: Wols, Gorky, De Kooning. Altri grandi protagonisti dell’Informale prendono invece avvio dal Surrealismo, dal versante Mirò-Masson. •



Wols (Wolfgang Schultze): La sua prima produzione consiste in disegni acquarellati, mezzo favorevole a continuare la linea snella e sciolta tipica dei Surrealisti. Nonostante l’utilizzo quindi di tratti di grande fluidità e sottigliezza l’artista riesce a ridare un’illusione di profondità, lo spazio subisce uno sfondamento, che consente ai profili di mettersi quasi in prospettiva, benché si tratti di una prospettiva non unitaria o sistematica, anzi ogni nucleo d’azione si dà da sé il proprio fondale prospettico non comunicante con gli altri. Le figure non sono più schematiche, economiche nei lineamenti, ma riacquistano una capacità di racconto, sempre a un livello primario, germinale, infatti la loro ricchezza di dettagli corrisponde quasi a un fenomeno di crescita. Anche Wols in seguito fa comparire, nei suoi dipinti, le virtù della materia: Gli sfondi dei dipinti vengono coperti da pellicole di paste, o più frequentemente da macchie di colore leggero e liquido. Egli evoca il principio materico nei modi più leggeri, attraverso una fenomenologia di macchie, chiazze, bolle aeree, gassose. Ciò non impedisce che il principio materico non svolga il suo compito di disturbo nei confronti delle figure. Inoltre la rivelazione della materia porta con sé i soliti valori di ambiguità. Arshile Gorky: La sua carriera si svolge per la maggior parte negli Stati Uniti e, nelle sue prime tappe, non rinuncia a misurarsi con i classici del primo Novecento, quali Picasso (del periodo rosa specialmente) e la successiva svolta Cubista. Tuttavia fin dagli inizi in Gorky agisce un filtro che implica immagini dalla morbidezza organica, dalle forme arrotondate. Anche il colore è, dagli inizi, soffice, caldo, pastoso, vitale. Uno studioso dell’arte statunitense, Harold Rosenberg ha definito la sua arte “poetica della citazione”, in quanto non mancano in questo artista le citazioni di pittori precedenti, quali ad esempio De Chirico. Tuttavia Gorky ha sempre sviluppato queste citazioni in un uso personalissimo. Ciò appare evidente dal dipinto “L’artista e sua madre”, del 1928, in cui è chiaro il riferimento a Picasso del periodo rosa. Ben presto Gorky si avvicina alla linea dei Surrealisti, da Arp a Mirò, con il compito storico di dare consistenza fenomenica-esistenziale e quindi quantitativa e materica. Dipinto in cui appare questa fisicità è

“Notturno, enigma e nostalgia”, del 1934. Da un punto di vista formale, in Gorky, non ci sono quasi innovazioni, eppure risulta tutto diverso. Il motivo strutturale...


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