Riassunto Diritto internazionale Cannizzaro PDF

Title Riassunto Diritto internazionale Cannizzaro
Course Diritto internazionale
Institution Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro
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riassunto di diritto internazionale ...


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DIRITTO INTERNAZIONALE

Introduzione. Struttura e funzione dell’ordinamento internazionale Negli ordinamenti statali vi è un’autorità sociale, ossia lo Stato, posto in rapporto di supremazia rispetto agli altri consociati. L’esercizio delle principali funzioni degli ordinamenti giuridici interni è istituzionalizzato (il diritto internazionale, invece, è un ordinamento privo di istituzionalizzazione; è un ordinamento non statalizzato, ossia lo Stato è presente in qualità di soggetto dell’ordinamento internazionale): negli ordinamento statali le regole che disciplinano la vita dei consociati sono stabilite da istituzioni pubbliche. A propria volta, tali norme sono interpretate da altre istituzioni pubbliche, di carattere giudiziario, e applicate, anche coattivamente, attraverso una struttura amministrativa (quindi, nell’ordinamento statale, in caso di violazione della norma interviene l’organo statale; ad es. parcheggio la macchina in un luogo vietato, quindi commetto un’infrazione che verrà sanzionata dal vigile, ossia dall’organo dello Stato). Nel diritto internazionale lo Stato non è un’autorità giuridica, bensì uno dei destinatari delle regole internazionali, alle quali è giuridicamente tenuto a prestare osservanza (lo Stato è uno dei soggetti del diritto internazionale). Il diritto internazionale è caratterizzato dall’inesistenza di un potere politico universale: ciascuno Stato, sotto il profilo interno, tende ad affermare la propria supremazia nei confronti della comunità di individui stanziata sul proprio territorio (nel diritto interno l’individuo è un soggetto dell’ordinamento statale; l’ordinamento internazionale è composto da Stati, non da individui. L’individuo non è un soggetto di diritto, bensì oggetto, fattispecie materiale di una norma. La condotta individuale rileva se viene in essere quale fattispecie di norme internazionale o se la condotta è posta in essere da un soggetto in qualità di funzionario dello Stato. Per esempio il CASO MARO’: l’India ritiene che i soldati italiani, che prestavano servizio su una nave privata, non erano in missione ufficiale, pertanto il loro esercizio NON rientrava nelle loro mansioni ufficiali, cioè quelle svolte in base a leggi e regolamenti; orbene, in tale circostanza le azioni poste in essere dai Marò, ove la tesi indiana fosse accolta, hanno un carattere NON pubblico, e dunque non dovrebbero ricadere nell’ambito del diritto internazionale, bensì sottoposte alla giurisdizione indiana. Ma nessuno Stato, sotto il profilo internazionale, può esercitare una supremazia sugli altri soggetti del diritto internazionale, ossia sugli altri Stati. In prima battuta è possibile affermare che il diritto internazionale è l’insieme delle regole destinate a disciplinare i rapporti che si instaurano nell’ambito di una comunità sociale formata non da individui, bensì dalle comunità politicamente organizzate (gli Stati) nelle quali essi sono raggruppati. Gli Stati, detentori in via esclusiva del potere politico ‘‘verso l’interno’’, tendono a monopolizzare anche la gestione del potere politico ‘‘verso l’esterno’’, di guisa impediscono la formazione di strutture istituzionali capaci di imporsi rispetto ad essi (quindi il diritto internazionale è un ordinamento non istituzionalizzato). In altri termini, la presenza di una pluralità di Stati costituisce un ostacolo per la formazione di stabili forme di autorità che possano esercitare, con caratteri di supremazia, le funzioni di un ordinamento giuridico. Il diritto internazionale, alle sue origini, si configura quindi come un ordinamento privo di autorità riconosciute e tali da imporsi sui propri consociati con carattere di supremazia. Nel diritto internazionale classico, tali questioni non avevano particolare rilevanza pratica: il numero di soggetti, di norme e di fenomeni giuridici era esiguo. La comunità internazionale di oggi è strutturalmente diversa: non vi sono solo gli Stati, ma anche altri enti aspirano ad essere !

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riconosciuti come protagonisti di relazioni internazionali (la loro classificazione è complessa poiché il numero degli enti è arricchito in virtù della tendenza degli Stati a trasferire competenze verso l’esterno a favore di organismi internazionali, e verso l’interno a favore di enti a carattere substatale). Dato il mutamento della struttura della comunità internazionale, anche la funzione del diritto internazionale odierno risulta in mutazione. Al diritto internazionale non è affidato solo il compito di assicurare la coesistenza fra Potenze, propria del mondo giuridico internazionale di qualche tempo fa. A strumenti internazionali sono oggi affidate altre varie funzioni, fra cui la gestione di interessi collettivi e la protezione di valori fondamentali della comunità internazionale (oltre, chiaramente, all’originario compito del diritto internazionale classico, ossia assicurare la coesistenza fra Potenze). Il diritto internazionale non è più soltanto il ‘‘diritto privato degli Stati’’, ma non può comunque essere concepito come il ‘‘diritto pubblico della comunità internazionale’’: verosimilmente, esso rileva dell’una e dell’altra esperienza senza però riassumersi completamente in alcuna di esse. Nel diritto internazionale classico le principali funzioni erano esercitate su base decentralizzata; il diritto internazionale contemporaneo, invece, ammette sempre più forme centralizzate di organizzazione di esse. La differenza fra ordinamenti fondati sull’esercizio centralizzato di funzioni, quali quelli interni, e ordinamenti fondati sull’esercizio decentralizzato, quale quello internazionale, è stata descritta da Antonio Malintoppi nella Rivista del diritto internazionale del 1975. Malintoppi affermò che negli ordinamenti statali le funzioni essenziali erano esercitate dallo Stato, mentre negli ordinamenti internazionali sono caratterizzati (non da un accentramento ma) da un decentramento delle funzioni. L’ordinamento internazionale è nella sostanza un ordinamento a struttura decentralizzata: le principali funzioni di esso non sono esercitate attraverso istituzioni dotate di una posizione di supremazia rispetto ai consociati (come accade negli ordinamenti interni, nei quali lo Stato si impone ai privati-consociati), ma dai medesimi soggetti, gli Stati, che di esse sono anche i principali destinatari. Negli ordinamenti interni, la presenza di strutture istituzionali è dovuta alla circostanza che ciascuna istituzione, pur esprimendo una distinta articolazione della politica interna, contribuisce a formare l’unitaria volontà dello Stato, monopolista del potere politico interno e gestore dell’ordinamento giuridico. Nell’ordinamento internazionale, l’inesistenza di strutture istituzionali è volta ad assicurare agli Stati, soggetti di tale ordinamento e sottoposti all’osservanza delle sue norme, il controllo sui processi di produzione, di amministrazione e di attuazione del diritto. In origine, pertanto (nel diritto internazionale classico), l’esercizio delle funzioni era affidato agli Stati, attualmente, invece, il diritto internazionale contemporaneo tende in maniera crescente a una forma di esercizio collettivo o addirittura istituzionale. Ciò che contribuisce a spiegare la tensione fra decentramento e tendenza verso l’istituzionalizzazione è il divieto dell’uso della forza. L’ordinamento internazionale ha proibito l’uso della forza in capo ai singoli stati, ma non ha consegnato l’uso della forza in capo ad un ente centralizzato per tutta l’estensione per la quale l’uso della forza veniva rivendicata dai singoli Stati. Nel diritto internazionale classico l’uso della forza era consentita quale strumento coattivo di realizzazione del diritto. La tensione fra il classico esercizio decentralizzato delle funzioni e l’insorgenza di forme istituzionali si avverte innanzitutto nell’ambito della funzione normativa. I procedimenti di formazione delle regole internazionali hanno soprattutto carattere decentralizzato: esse vengono prodotte dai medesimi soggetti che ne sono i destinatari. (Le norme del diritto internazionale sono stabilite da tutti gli Stati principalmente sul consenso unanime e non da un organo deputato a promulgare leggi. E’ comunque possibile ricorrere ad un !

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diverso tipo di maggioranza, purchè la decisione venga presa all’unanimità: tutti gli Stati, all’unanimità, stabiliscono che in una determinata materia le decisioni vengano assunte a maggioranza e non all’unanimità. Essendo, inoltre, la comunità internazionale particolarmente vasta, costituita da numerosi Stati, è assai difficile dar vita ad accordi plurilaterali, pertanto molte norme derivano dalla consuetudine, quindi solo alcune norme derivano dal consenso. Le Nazioni Unite, prevalentemente, fanno norme operative: possono esservi dei casi in cui le N.U. tendono a porsi come legislatore internazionale anche se, per ribadire, non esiste un vero legislatore internazionale. Si formano allora strutture istituzionali per la produzione di norme giuridiche). Le tipiche fonti del diritto internazionale sono dunque gli accordi, espressione del consenso degli Stati parte, e la consuetudine, espressione della prassi posta in essere da tali enti. Tuttavia, il controllo degli Stati sui procedimenti di formazione del diritto si comprende in un ordinamento primitivo, in cui le norme internazionali riflettano esclusivamente l’equilibrio fra gli interessi egoistici degli Stati. Orbene, tale controllo appare meno adeguato in un sistema che include la tutela di interessi collettivi e di valori di carattere universale, motivo per cui, accanto ai tradizionali procedimenti decentralizzati (che riflettono l’interesse individuale dei singoli Stati), l’ordinamento ricorre a meccanismi capaci di imporre agli Stati regole giuridiche prodotte senza il loro consenso. Nel diritto internazionale contemporaneo, pertanto, i classici meccanismi normativi (accordi e consuetudine) sono a volte utilizzati al di là dei loro limiti di applicazione, al fine di produrre norme obiettive dirette alla tutela di interessi collettivi, che si impongano ai destinatari prescindendo dal loro consenso o dalla loro partecipazione. Ciò accade soprattutto per gli accordi multilaterali, conclusi sotto la pressione dell’opinione pubblica mondiale, per la tutela di interessi di carattere collettivo, quali la tutela ambientale o la tutela dei diritti dell’uomo. Tali accordi, conclusi da gran parte della comunità internazionale, sono frequentemente considerati come espressione di tendenza normative di carattere generale, applicabile pertanto anche agli Stati che non ne sono parte. Alle classiche fonti decentralizzate di produzione del diritto, sono istituiti meccanismi di produzione del diritto di tipo istituzionale, soprattutto attraverso l’azione degli organi delle Nazioni Unite. A tale tendenza contribuiscono sia atti vincolanti delle Nazioni Unite, sia atti a carattere non vincolante. Tende dunque a farsi strada l’idea di un diritto superiore che esprima una gerarchia di interessi e valori avvertiti dall’intera comunità. La funzione, di carattere strumentale, di accertamento ed esecuzione del diritto non determina direttamente la protezione giuridica di una posizione soggettiva, ma stabilisce il modo per accertarne l’esistenza e per garantirne l’attuazione. Negli ordinamenti interni esse costituiscono funzioni a carattere istituzionale, volte ad assicurare la certezza del diritto. Nell’ambito dell’ordinamento internazionale classico, la funzione di accertamento e quella di esecuzione sono esercitate a livello decentrato. L’assenza di forme di istituzionalizzazione della funzione giudiziaria esclude che uno Stato possa essere sottoposto ad un procedimento giudiziario di soluzione delle controversi senza il proprio consenso. È opportuno richiamare il CASO dei MARO’: l’ordinamento internazionale è privo di un organo giurisdizionale. Uno Stato non può essere sottoposto alla funzione giurisdizionale senza il proprio consenso. Ritenendosi che i Marò stessero svolgendo le proprie mansioni in qualità di organi statali, questi non possono essere sottoposti alla giurisdizione dello stato indiano senza il consenso dello stato italiano, anche se in alcuni campi, per esempio diritto del mare, vi sono giudici che operano sulla base di una sorta di consenso prestabilito che si fonda su un accordo (quindi la scelta, in base ad un accordo di epoca precedente al fatto illecito, di un giudice cui devolvere una controversia insorta fra gli Stati aderenti all’accordo: per esempio Italia e India si accordano per risolvere una eventuale controversia fra di loro davanti ad una determinata Corte. Dopo l’accordo i Marò commettono l’illecito: la !

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controversia verrebbe risolta dinanzi al giudice precedentemente designato, al quale gli Stati hanno accordato la giurisdizione). Il diritto internazionale non ha una giurisdizione precostituita. Anche la funzione esecutiva è assente nel diritto internazionale. Se questa fosse presente nel caso dei Marò vi sarebbe un organo in grado di eseguire la sentenza del giudice anche coattivamente. Va però ricordata la recente tendenza a istituire tribunali internazionali permanenti, dotati di regole di funzionamento predeterminate. Tali enti hanno indubbiamente natura giudiziale, applicano il diritto internazionale ed operano come organi della comunità internazionale nei limiti delle competenze loro attribuite. La loro attività dà pertanto vita a orientamenti giurisprudenziali consolidati, che contribuiscono allo sviluppo del diritto internazionale. Considerazioni analoghe possono essere fatte per quanto attiene alla funzione di attuazione del diritto. Tradizionalmente imperniata sul bilateralismo, tale funzione sembra mutare in relazione all’esigenza di tutelare interessi fondamentali della comunità internazionale. L’ordinamento internazionale tende ormai a distinguere fra un rapporto bilaterale e uno collettivo di responsabilità. La violazione di norme tese a tutelare interessi individuali di singoli Stati sfocia in un rapporto di responsabilità che intercorre unicamente fra lo Stato autore e lo Stato vittima dell’illecito (es: rapporto di responsabilità che si stabilisce in relazione alla violazione di un trattato bilaterale teso a disciplinare su base di reciprocità il trattamento degli investimenti). Diverso appare il rapporto di responsabilità che fa seguito alla violazione di norme che tutelano valori fondamentali della comunità internazionale (ad es. il divieto di genocidio), che richiede norme e procedure di garanzia particolari per la tutela dei valori fondamentali dell’ordinamento. In questo caso, la violazione non lede interessi individuali di singoli Stati ma mette in gioco interessi dell’intera comunità. Carattere fondante di ciascun ordinamento giuridico è riconosciuto alle regole che disciplinano l’uso della forza. In materia si sono sviluppate contrapposte teorie. Le concezioni contrattualiste (dottrina giuridica secondo cui l’origine della società e dello Stato risiede in un patto fra gli uomini ancora viventi allo stato di natura), riferendosi al pactum societatis, identificano nel consenso il fondamento della sottrazione ai consociati del potere di usare la forza per fini individuali e dell’attribuzione di tale potere ad una istituzione che opera per finalità collettive. In contrapposizione a tale ricostruzione, le concezioni realiste imputano tale fenomeno ad un processo di autoaffermazione, per cui un ente si afferma come superiore rispetto ad altri come titolare esclusivo del potere di usare la forza, attraverso un processo di puro fatto, sovente caratterizzato dall’impiego della violenza fisica. Il diritto internazionale fornisce un’ulteriore possibilità, caratterizzata dal passaggio da una forma di organizzazione in cui i consociati dispongono della possibilità di usare la forza per realizzare i propri interessi individuali, ad una in cui tali soggetti ne sono privi (la teoria contrattualista e quella realista posso riferirsi all’ordinamento statale, forse anche al primo diritto internazionale. L’ultima teoria è indubbiamente riferita al diritto internazionale contemporaneo in cui l’uso della forza è subordinato al verificarsi di determinate condizioni). Ed infatti l’ordinamento internazionale costituisce una comunità di diritto che ha stabilito regole e procedure per il controllo dell’uso della violenza. Tuttavia le prime due tesi sono state presenti, e tuttora si riaffacciano, nell’esperienza giuridica internazionale. L’ordinamento internazionale contemporaneo è giunto a sottrarre agli Stati il potere di usare la forza e a consegnarlo ad un meccanismo di carattere istituzionale, imperniato nel sistema delle Nazioni Unite (è il Consiglio di Sicurezza), limitatamente alla realizzazione dell’interesse collettivo per eccellenza: il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; l’organo delle Nazioni Unite è impossibilitato ad usare la forza per fini differenti. Il divieto di uso unilaterale della forza si è formato in reazione al precedente regime che ammetteva il potere degli Stati di utilizzare la violenza come strumento per la realizzazione unilaterale dei !

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propri interessi. Constatata l’incapacità di tale regime di evitare abusi e assicurare la stabilità del sistema internazionale, il divieto assoluto è apparso l’unico strumento efficace di controllo sull’uso della violenza bellica (quindi: inizialmente gli Stati avevano la possibilità di utilizzare la forza per realizzare unilateralmente i propri interessi; segue il divieto di uso unilaterale, al fine di evitare abusi dell’utilizzo della forza e di conseguenza per assicurare la stabilità del sistema internazionale; segue, a causa del sistema fallimentare, apparso non in grado di limitare abusi e garantire stabilità, il divieto assoluto di utilizzare la forza). Il divieto di uso della forza si caratterizza quindi come un meccanismo di controllo sociale dei conflitti. In relazione a tale funzione, esso si configura come assoluto, con l’unica eccezione data dal diritto di legittima difesa. Differente è, invece, la competenza ad usare la forza da parte delle Nazioni Unite. Gli Stati non hanno inteso assegnare a tale istituzione una competenza generale ad usare la forza come strumento di garanzia del diritto. La devoluzione in capo alle Nazioni Unite del potere di utilizzare la forza è funzionalmente limitata alla realizzazione dell’interesse collettivo per eccellenza: il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. In altri termini, l’ambito di competenza degli organi ai quali è stato devoluto il potere di usare la forza non coincide con l’ambito della competenza degli enti che se ne sono spogliati. Pertanto, l’ordinamento internazionale ha rinunciato, nella gran parte delle situazioni, ad utilizzare la forza come strumento di garanzia del diritto. Ciò premesso, con riferimento al par. 7 ult. capoverso , nessun interesse giuridico può giustificare l’impiego della forza, a meno che la sua mancata realizzazione non rappresenti una minaccia per la pace e la sicurezza fra le nazioni. L’interesse a non usare la forza prevale su qualsiasi altro interesse, sia di carattere individuale che di carattere collettivo, con l’unica eccezione di mantenere la pace e la sicurezza internazionale. L’impiego unilaterale della forza prevale sull’esigenza di attuare coattivamente posizioni soggettive: uno Stato, cioè, non può usare la forza neppure qualora questa costituisca l’unico mezzo per ottenere l’adempimento di un obbligo nei suoi confronti. L’effettività di una norma giuridica dipende chiaramente dagli strumenti di garanzia che ne assistono l’esecuzione. Ne consegue che l’assenza di una forma di garanzia assoluta dell’adempimento degli obblighi internazionali implica un notevole affievolimento dell’effettività delle norme internazionali (non esiste nel diritto internazionale un organo giurisdizionale). Si ricordi, infatti, che le Nazioni Unite non possono utilizzare la forza per assicurare l’attuazione del diritto internazionale, ma possono esercitarla, secondo i meccanismi e le procedure previste dalla Carta delle Nazioni Unite, esclusivamente al fine di garantire la pace e la sicurezza internazionale. In tale contesto è opportuno precisare che si tende a considerare che la violazione di valori fondamentali della comunità internazionale costituisca una minaccia a...


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