Riassunto Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri - turkle s. PDF

Title Riassunto Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri - turkle s.
Course Sociologia della comunicazione
Institution Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
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Turkle S. (2011) Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri....


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PRESENTAZIONE “INSIEME MA SOLI. PERCHE’ CI ASPETTIAMO SEMPRE PIU’ DALLA TECNOLOGIA E SEMPRE MENO DAGLI ALTRI” L’autrice Sherry Turkle, già introdotta nella presentazione precedente, è una psicologa sociale inserita nel MIT di Boston. Definita anche come antropologa del cyberspazio, è piuttosto scettica riguardo al momento robotico e al legame uomo-robot. Tuttavia è molto interessata e curiosa dell’intimità che si può creare con un robot, soprattutto durante l’infanzia e di come i bambini lo riconoscano come loro simile e lo accettino senza porsi troppe domande. La presentazione quindi, cosi come il testo, sarà divisa essenzialmente in due parti: la prima, nella solitudine nuove intimità, un’analisi approfondita sul momento robotico e una panoramica dei prodotti che lo realizzano. La seconda, nell’intimità nuove solitudini: una indagine sul fenomeno della connessione perenne e della costruzione dell’identità personale (soprattutto in età adolescenziale) nell’era digitale. L’autrice struttura i capitoli secondo un’escalation di intimità: da un grado minimo di vicinanza, che genera una curiosità sempre maggiore verso il robot sociale, ad un grado massimo di “comunione” come la chiama la Turkle nel senso di diventare un tutt’uno con esso. Siccome però la sua strutturazione risulta un po’ caotica e ripetitiva a causa anche dei continui riferimenti a concetti e testimonianze precedenti, abbiamo deciso di organizzare la presentazione seguendo invece un crescendo: dal prodotto più semplice con un’interazione base, tipo giocattolo, ad uno più avanzato con un’interazione quasi reale, i robot umanoidi Iniziamo chiarendo cosa si intende con l’espressione “momento robotico”. L’autrice definisce la nostra epoca come appunto il momento robotico, ovvero quello stato di nostra disponibilità emotiva verso i robot. Questo significa che riusciamo a considerare i robot come amici, confidenti o addirittura partner sentimentali (come già visto anche nell’ultima presentazione). SLIDE: “Nel momento robotico la rappresentazione del legame, sembra essere un legame sufficiente” Questo significa che siamo pienamente coscienti che in realtà le intelligenze artificiali non provano né condividono con noi le emozioni che esternano, ma nel momento robotico siamo soddisfatti dalla semplice simulazione. E’ come se questi robot toccassero i nostri “tasti darwiniani”, guardarci negli occhi, seguendoci nei nostri movimenti, dimostrarci affetto in grado di darci l’illusione che dall’altra parte ci sia qualcun altro, un altro essere vivente. SLIDE: “Un pensiero simulato può essere un pensiero ma un sentimento simulato non è mai un sentimento” Già nei bambini la distinzione computer-uomo sta nel provare sentimenti: i computer sono macchine intelligenti, le persone macchine emotive. Con il Tamagotchi (1997) abbiamo però il primo caso di computer che presenta ed esprime le proprie emozioni e i propri bisogni. SLIDE: Foto tamagotchi Sono giochi animati che ci insegnano di cosa hanno bisogno e ci fanno continue richieste. In questo modo, se accontentato e accudito nel giusto modo, crescerà diventando sano e diligente altrimenti svilupperà una personalità negativa. Insegnano anche che la vita digitale può essere emotivamente agitata, piena di obblighi e di rimorsi da parte dei bambini che si sentono in dovere di accudire adeguatamente le proprie creature. I bambini affrontano le macchine sociali come si rapportano con gli animali o le persone, ovvero cercano di diventarne amici. Infatti conoscere una persona non significa conoscerne la sua biochimica, così come conoscere un tamagotchi non significa conoscerne il programma. Un tamagotchi è sempre acceso: le sue richieste sono continue, così come il suo bisogno di attenzioni. Tanto che quando i bambini sono a scuola, spesso delegano la cura dell’animaletto ai

genitori che ne sono pienamente responsabili. Se le cure non risultano adeguate, il tamagotchi, così come l’essere umano, può morire. Benchè si possa resettare, e quindi dargli nuova vita, i bambini faticano ad accettare questa soluzione, lamentandosi che non nascerà uguale a prima e che le esperienze condivise insieme andranno perdute: come dice una bambina, “il tamagotchi è morto e deve riposare”. Questo si concretizza in un vero e proprio esercizio all’elaborazione del lutto, infatti online si può trovare il tamagotchi graveyard, ovvero un cimitero virtuale dove ogni bambino può scrivere una frase o un pensiero dedicato all’anima della sua creatura defunta. SLIDE: Foto cimitero tamagotchi Nel 1998, il tamagotchi esce dallo schermo del suo uovo di plastica e nasce il Furby, un gufo peloso venuto dallo spazio per studiare gli umani e relazionarsi con loro. SLIDE: Foto Furby Come i tamagotchi, sono sempre accesi e attivi. Anche qui, il modo di allevarlo influenzerà la sua personalità. Il Furby però, rispetto agli animali veri o a un tamagotchi, è più simile alle persone perché dotato di un linguaggio. Come si sente nella pubblicità, oltre alla lingua originale, il Furbish, il Furby è in grado di apprendere con il tempo e la dedizione la lingua del bambino. Inizialmente molti hanno creduto a questa sua capacità, tanto che le agenzie di intelligence lo vietarono nei propri uffici, pensando si trattasse di registratori camuffati da giocattoli. Ovviamente il Furby non ha alcuna capacità uditiva o di apprendimento, è semplicemente programmato per sviluppare la lingua in un determinato arco temporale. SLIDE: I modelli più recenti usciti sul mercato (2012-14) sono programmati con la possibilità di interagire con una app attraverso cui è possibile lavarli, nutrirli, farli giocare, farli figliare (VIDEO) Sia il Furby che il Tamagotchi sono quindi robot sociali, non aspettano che il bambino li animi (come bambole o macchinine), hanno già “vita propria”, fanno richieste e sono sempre attivi. Furby in particolare si lega anche al concetto di reciprocità: esso non è un semplice gioco di simulazione proiettiva, il bambino sente infatti la necessità di valutare continuamente il suo stato fisico ed emotivo. SLIDE: Con il Furby i bambini si aprono all’idea del meccanico come biologico: • Diversità fisiche, malattie (Furby si ammala e ciò è indice di inadeguata cura da parte bambino. In uno specifico caso di studio, tentano di operare il Furby come si farebbe con un essere umano o un animale per cercare di risolvere il problema) … e all’idea del biologico come meccanico: • Morte (morire equivale a togliere le batterie del Furby, che dimentica tutta la sua vita e le esperienze vissute) Per i bambini è inconcepibile cancellare la vita di un Furby e lo si vede nell’esperienza di Holly, 8 anni che rimane scossa e in silenzio quando sua madre toglie le batterie in vista di una lunga vacanza. Mentre la madre si difende dicendo di aver solo seguito il manuale, Holly con gli occhi spalancati cerca di farle capire ciò che ha fatto: “Mamma, quando si tolgono le batterie, il Furby dimentica la sua vita, non so se mi spiego…”. A testimonianza della disperazione e dell’incapacità dei bambini di elaborare la morte del loro amico, il video di questa bambina…

VIDEO BAMBINA DISPERATA

La naturale evoluzione di un animale fantastico come il Furby è un animale più realistico, il cane robot AIBO, progettato da Sony nel 1999 per un pubblico di adulti, già abituato a relazionarsi con altri e a provare empatia. SLIDE: foto AIBO Come tamagotchi e Furby, AIBO può sviluppare una propria personalità e dimostrare i propri sentimenti. Può essere addestrato e con il passare del tempo cresce da cucciolo a cane adulto. Tutti questi fattori favoriscono la percezione dell’AIBO come un animale vero, non vuole stare solo e può affezionarsi al padrone. Il suo modo per esprimere le emozioni sono delle luci verdi o rosse che gli illuminano la faccia-schermo e ci fanno capire se è soddisfatto o offeso. VIDEO: Funzionamento AIBO Come ogni animale che si rispetti, crescendo si crea una storia ed un passato che rimarranno nella memoria sua e del suo padrone. Se da una parte c’è chi sostiene che un animale vero ti da di più, dall’altra c’è chi afferma che l’AIBO può essere anche migliore: puoi spegnerlo se sei stanco o irritato, non esige la tua attenzione se non hai tempo per dargliene, non sente la tua mancanza se devi stare via per un lungo periodo, non va portato fuori per i bisogni, ma soprattutto non muore ma può essere sempre aggiustato. Quest’ultimo punto risulta essere quello più importante per chi ne ha uno e può affezionarsi a lui senza eccessiva responsabilità e paura di soffrire in caso di morte. Per fare una panoramica sui diversi sentimenti che allevare un AIBO può suscitare, citiamo solo alcuni dei casi di studio della ricercatrice. • Harry, 4 anni: inizialmente gioca con l’AIBO in maniera aggressiva, facendolo cadere e spingendolo. Tuttavia ad un certo punto si preoccupa che il robot possa non volergli più bene. Per uscire da questo disagio, lo sminuisce definendolo “finto” ma poi è triste perché credere nel suo affetto migliora la sua autostima. Harry è coinvolto in un test di amore circolare • Tucker, 7 anni: bambino malato tenuto in vita con assistenza domiciliare. Proietta sul suo AIBO la forza e i superpoteri che lui non potrà mai avere. Accettando l’idea che l’AIBO è vivo seppur fatto di cavi e batterie, e quindi immortale, Tucker sogna per sé un futuro del genere, in cui le persone come i robot potranno essere ricaricate e aggiustate • Callie, 10 anni: bambina trascurata da genitori impegnati col lavoro, mancanza che la spinge a comportarsi come una madre perfetta per il suo cucciolo, cui dedica tempo, cure e amore e da cui si sente ricambiata. Quando l’AIBO si guasta, arriva addirittura a negare l’evidenza per giustificarlo dicendo cose tipo “Il mio cane finge, fa sempre così quando vuole attirare l’attenzione” e quando il robot si spegne “adesso dorme, ma sa che lo sto tenendo in braccio” Così come i bambini, gli adulti si affezionano agli AIBO e spesso li usano come confidenti delle proprie esperienze negative o giornate felici. Restando sui robot con sembianze animali, vi facciamo conoscere Paro VIDEO: Paro Un piccolo robot sociale simile ad una foca, inventato per tenere compagnia agli anziani nelle case di riposo. Paro distingue tra un tocco morbido ed uno aggressivo, distingue 500 parole in inglese ed è capace di calmare persone ansiose o depresse. Durante la sua presentazione all'AgeLab del MIT, nel 2009, un'infermiera ipotizza che la sua categoria professionale ostacolerà l'inserimento del robot per non sminuire il proprio lavoro e per non permettere che si torni a considerare gli anziani come bambini da intrattenere con giocattoli; ma la Turkle ha già avuto esperienze e sa che non è andata così.

Come avevano predetto i bambini, infatti, agli anziani piace prendersi cura di un paro, perché ha richieste semplici che essi sono in grado di soddisfare e che li fanno sentire indispensabili, oltre al fatto che, a differenza di bambini e animali reali, se si rompono possono essere aggiustati: questo rassicura chi se ne prende cura. Non si parla più di robot/macchine per fare cose, per assistere: fare la doccia, tagliare le unghie, riconoscere una persona distesa a terra e chiamare soccorso ecc. Si parla di compagnia, di relazioni e sentimenti; i nuovi robot sono creati per non far stare da soli gli anziani lasciati soli. Gli anziani li accolgono bene e, dopo aver messo in chiaro che non sono pazzi e che sanno di star interagendo con qualcosa di non vivo, si lasciano trasportare e socializzano e si affezionano ad essi. Spesso è il semplice parlare a voce alta dei propri problemi che fa sentire meglio le persone. Con i robot questo é fattibile, anche se mancano del tutto l'empatia, la comprensione e il giudizio/ apporto dell'altra parte. Nel novembre 2000 viene lanciato il My Real Baby, una bambola con le sembianze di un neonato che richiede le stesse cure di un bambino vero (latte, pannolini). VIDEO: MY REAL BABY Come i vari robot sociali esaminati sinora, il my real baby esprime emozioni con espressioni facciali, dimostra stanchezza, gioia e piange. Col passare del tempo, da neonato cresce fino a diventare un bimbo di 2 anni che dice le sue prime parole. I produttori della bambola si sono posti il problema etico della reazione al dolore: il My Real Baby viene progettato in modo da spegnersi nel momento in cui subisce un maltrattamento, per non incitare comportamenti aggressivi. Il My Real Baby stimola ad immaginarsi i robot nella vita quotidiano, specie nella funzione in cui si prenderanno cura di noi: da my real baby a my real baby sitter. Sono proprio i bambini ad immaginarsi il futuro con dei robot a prendersi cura di loro nel momento in cui i genitori sono assenti, mettendo in evidenza i limiti degli umani che oggi svolgono questo compito. “I bambini vedono la cosa su un piano molto pratico: ognuno faccia quello in cui è più efficiente” Emerge quindi come i bambini soddisfatti delle attuali tate umane non siano interessati ad una compagnia robot (la mia tata mi fa divertire, è creativa, inventa sempre nuovi giochi, un robot fa solo quello che gli viene detto di fare), mentre gli altri preferirebbero le cure di un robot perché più attento ed efficiente (i cereali non sono una cena adatta ad un bambino, un robot saprebbe che è più adatta la pasta). Dalle babysitter per i bambini, i ragazzini finiscono a parlare di babysitter per i propri nonni, facendo emergere la paura che questi ultimi, soddisfatti da ordine e prevedibilità, finiscano con il preferire i robot ai nipoti veri e a voler più bene a loro. Il robot, che entra come soluzione, diventa un usurpatore e crea gelosia. I my real baby sono stati testati anche direttamente con gli anziani, ricordiamo: • Andy, 76 anni: attraversa le varie fasi con la bambola, da mascotte a compagna/amica, fino ad identificarla con la ex moglie a cui dire finalmente tutto quello che ha potuto in questi anni di separazione • Edna, 82 anni: nonostante la presenza della piccola pronipote, dedica tutte le sue attenzioni alla bambola, ignorando le insistenti richieste della bambina. Tuttavia dice che ha di meglio da fare che giocare con una bambola (che riconosce come tale) e alla fine la rende ai ricercatori. Alla domanda “secondo lei ha dei sentimenti?” risponde negativamente ma subito dopo si gira alla bambola che piange e la accarezza rivolgendole parole dolci per capire quale sia il problema

Sviluppati sulla falsariga di un bambino, ecco il Cog e il Kismet SLIDE: FOTO COG E KISMET

Il primo, è un torso umano a grandezza naturale capace di muovere braccia, collo e testa. Ha sistemi sensoriali visivi, tattili e cinestesici ed è capace di svariate funzioni come riconoscere alla vista persone e oggetti particolari. Il secondo, è una testa robotica con diversi gradi di libertà nella manifestazione delle espressioni facciali (FOTO). Le piccole orecchie, le labbra mobili in gomma tubolare e i grandi occhi ispirano empatia e creano l’impressione di essere compresi e guardati negli occhi, un’illusione di simmetria nel nostro rapporto con esso. Entrambi questi robot imparano dall’interazione con gli esseri umani e generano in essi sentimenti di affinità. Si ha la sensazione che uomini e robot non siano poi così diversi. Questi robot sono stati sottoposti all’attenzione dei bambini: si è voluto osservare il primo incontro. E’ da subito evidente che il desiderio di questi ultimi è quello di collegarsi con Cog e kismet, insegnargli qualcosa, diventare amici; vogliono piacergli tanto da essere amati da loro. I bambini sono disposti infatti ad impegnarsi molto per ottenere questi risultati: cantano, ballano per i robot, giocano con loro, cercano di farli felici. Anche quando a due sorelline viene mostrato come funziona il Cog e che loro stesse possono controllarlo, assimilano l’informazione ma dopo un attimo tornano a commentare quel che “fa” il robot come se fosse autonomo e vivo, guidato da sentimenti. I bambini non riescono a scindere tra la macchina e l’anima perché con l’interazione gli hanno attribuito un TU: è il momento dell’ “io e tu robotico”. L’interazione mette in evidenza: • un TU tramite il corpo (interazione visiva, tattile e motoria che fa percepire il robot come abbastanza vivo + fa desiderare di avere un contatto fisico con il bambino) • un TU tramite volto e voce (capacità vocali ed espressive + i bambini cercano di interpretare cosa dice ed insegnargli nuove parole, giustificazioni in caso di guasti) • un TU prendendosene cura (i bambini vogliono essere i loro insegnanti o genitori, credono che il robot faccia tesoro delle esperienze vissute insieme + terapia di trasferimento che fa riflettere la realtà del bambino sul robot: io non ti abbandonerò mai) • un TU con delusione e rabbia (fallimenti o malfunzionamenti dei robot interpretati dai bambini come malattie per evitare il sentimento di rifiuto, ma i più vulnerabili reagiscono con rabbia: il bambino che si mette sotto al braccio del robot per vedere se lo colpisce) L’evoluzione successiva del Cog e Kismet è il Domo, crea un contatto visivo, manifesta espressioni e segue il movimento umana; insomma collabora. SLIDE: foto Domo Il suo stesso programmatore non lo trova banale o prevedibile e ognuno impara dall’altro mentre svolgono insieme alcune semplici azioni, ad esempio si sorprende, e racconta della strana sensazione che prova, quando il Domo cerca insistentemente di ottenere la palla che egli ha in mano; nonostante Edsinger respinga questa azione, il robot risulta ostinato quasi come un bambino. Emerge l’effetto ELIZA secondo cui il desiderio di venire incontro al robot per farlo sembrare più competente di quanto sia ci spinge a colmare le sue lacune ed aiutarlo come si farebbe con una persona con dei limiti fisici o mentali che siano (esempio scatola di cereali in orizzontale o verticale). Il rapporto di contatto con il Domo, il suo cercare la tua mano, può darti l’illusione che esso abbia una volontà anche se sei il suo programmatore e sai benissimo che non ha emozioni o sentimenti. Ciò che offrono i robot colpisce le nostre debolezze umane. Nel 2006 l’artista Pia Lindman decide di fondere il suo volto e il suo corpo con un robot sociale. Gira un video in cui imita il Domo, il suo programmatore, e poi l’interazione fra essi: ciò che si nota è che il confine tra persona e macchina si sta spostando, diversi osservatori vedono cose diverse.

Basandosi inoltre su un suo lavoro precedente, mette in evidenza come anche gli umani esprimano le proprie emozioni seguendo degli schemi: se dunque siamo programmati per reagire tutti allo stesso modo, cosa ci rende diversi da un robot? Come ultimo caso, conosciamo Tony che è combattuto sull’affidare o meno la madre della moglie, malata di Alzahimer, alle cure di un robot piuttosto che a quelle di un immigrato. Da una parte il robot è più affidabile, sicuramente educato e rispettoso. Dall’altra manca il contatto umano, importante specie in malattie alienanti come questa. In Giappone non ci sono più questi tipi di problemi etici. I robot sono già impiegati per la cura di anziani e bambini, per i compiti di receptionist e guide. Addirittura ai robot non è negata un’anima, in un paese in cui anche aghi consumati e bambole gonfiabili hanno degna sepoltura. In Giappone i robot sono visti come coloro che ci salveranno dall’isolamento a cui ci hanno portato smartphone e computer; stimolando il contatto “umano” ci riporteranno nella realtà, l’uno verso l’altro.

II parte Se in questa prima parte abbiamo visto come i teenager sono cresciuti con robot sociali come compagni di giochi, nella seconda vedremo come questo li ha plasmati in adolescenti perennemente connessi. Contrariamente a quanto accadeva fino a pochi anni fa, quando l’essere umano era bravo e abituato a creare riti per creare confini tra i vari ambiti della sua vita (come ad esempio ritagliarsi un giorno per la famiglia come può essere la domenica, cambiarsi d’abito quando torna a casa dal lavoro, il momento della cena riservato alle chiacchiere con i figli), oggi le demarcazioni sfumano via via che la tecnologia ci accompagna dappertutto, sempre. Restando perennemente connessi e raggiungibili, abbiamo l’impressione che tempo e spazio siano un continuum. Ne sono un chiaro esempio le due esperienze di Rebecca e Diane: • Rebecca (figlia della Turkle, 14 anni): Durante un viaggio a Parigi riceve una telefonata da un...


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