Tesina Psicologia - Voto: 26 PDF

Title Tesina Psicologia - Voto: 26
Author Marco Guarneri
Course Psicologia Generale
Institution Università degli Studi di Parma
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Esame Psicologia...


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Università degli Studi di Parma Corso di Laurea Magistrale in “Programmazione e Gestione dei Servizi sociali” TESINA DI PSICOLOGIA DEI GRUPPI E DELLE FAMIGLIE

LA PERCEZIONE DELLA FOLLIA ALL’INTERNO DELLA SOCIETÀ Il ruolo di una comunità competente

Docente: Prof. Bencivenga Claudio

1. Cosa c’era: dall’istituzione alla chiusura dei manicomi 1.1 Manicomi come istituzioni totali di controllo sociale ! In Occidente gli individui affetti da patologia mentale, dopo essere stati perseguitati e messi al rogo dallo strumento cristiano dell’Inquisizione, che vedeva nella bizzarria e nella incomprensibilità di certi comportamenti e nelle deformità corporee i segni della possessione diabolica, iniziarono un’ epopea di reclusione che a tutt’oggi non ha trovato una conclusione definitiva. Alla fine del XVI secolo, quando la società borghese iniziò la propria ascesa al potere, la razionalizzazione della produttività richiese l’emarginazione di tutti gli elementi che produttivi non avrebbero potuto essere, e tra questi i “pazzi”. ! Il malato di mente (marginale, inutile, anarchico, socialmente insignificante) venne allora rinchiuso nel lebbrosario, che si ripopolò dopo due secoli di inattività (dalla scomparsa della malattia per cui era stato originariamente creato: la lebbra), nuova discarica limitata e invalicabile, terreno isolato garante della società dei sani, che voleva mantenersi linda, ordinata, incontaminata. L’“uomo sociale” si assegnava il diritto di essere difeso e salvaguardato da chi, nella socialità, incarnava la quintessenza della pericolosità: il matto. Nel lebbrosario si andò a mischiare tutto ciò che poteva essere considerato “ai margini”: dalla persona mentalmente disturbata al mendicante, al vecchio, allo storpio, al malato cronico; l’unica finalità dell’internamento diventò quella di salvaguardia del “fuori”, l’unica attività concepita quella del lavoro coatto (Zavoli, 2005).! Nel ‘700 questo processo di raccolta e segregazione fu accelerato dal diffondersi in ambito culturale del positivismo e del naturalismo, dall’abbandono degli interessi speculativi del periodo precedente in favore della focalizzazione sulle scienze fisiche e naturali, oltre che sulla ricerca empirica. La follia non esulò dal processo e divenne oggetto di indagine che necessitava di uno spazio preciso dove poter essere isolata e studiata (il manicomio), oltre che di una disciplina specifica che se ne occupasse in termini scientifici: la psichiatria (Nicoli e Zani, 1998) .! A metà del 1700, con la fondazione del primo ospedale psichiatrico degli Stati Uniti, a Williamsburg in Virginia, la malattia mentale entrò a tutti gli effetti nella sfera della medicina, senza che questo comportasse alcun miglioramento nel trattamento dei malati: cavie di procedimenti grossolani e dolorosi, e nella quasi totalità completamente inefficaci. Per citare un esempio fra tutti, Benjamin Rush, padre della psichiatria americana, ritenendo che la causa dei comportamenti bizzarri dei pazienti psichiatrici fosse un eccesso di sangue nel cervello, li sottoponeva ad abbondanti salassi. Il modello

psichiatrico era un modello di stampo medico-positivistico, basato sul principio deterministico di causalità biologica che individua l’origine del sintomo in precise e localizzate alterazioni organiche del cervello. Il malato psichiatrico era ridicolizzato oltre che abusato, alcuni manicomi mettevano in atto una politica di spettacolarizzazione delle follia che prevedeva la possibilità di visita all’istituzione tramite il pagamento di un biglietto (Davidson e Neale, 2003). ! Lo stato delle cose iniziò a cambiare quando, prima il francese Philippe Pinel con il suo “trattamento morale” nella prima metà del XIX sec., e poi l’americana Dorotea Dix nella seconda metà del XIX sec., cercarono di proporre e attuare un trattamento che risultasse maggiormente umanitario nei confronti degli internati nei manicomi. I matti iniziarono così a essere liberati dalle catene e a essere considerati esseri umani a cui avvicinarsi con dignità, rispetto e compassione, tramite il coinvolgimento in attività che esulassero dalla contenzione fine a se stessa. Si affermò la necessità di un trattamento umano del malato, perché la scienza, strumento egemone della classe borghese che ne espletava la necessità di controllo, iniziava a rivendicare il proprio status di mezzo di progresso sociale. Lo psichiatria in questa nuova prospettiva vuole studiare la malattia mentale e aiutare il malato, non solo ottenere un riconoscimento come garante dell’ordine sociale e dei diritti dei cittadini (Nicoli e Zani, 1998).! I problemi restavano però molteplici: questo tipo di trattamento “privilegiato” era spesso riservato alle persone facoltose, il personale degli ospedali psichiatrici era carente e non formato, i medici erano interessati alla salute fisica e agli aspetti biologici della malattia più che al benessere psicologico del malato, spesso il miglioramento consisteva semplicemente nel passaggio da contenzioni fisiche (cinghie e catene) a contenzioni psicoattive (l’alcool e l’oppio, prima dell’arrivo dello psicofarmaco) (Davidson e Neale, 2003).! Da qui fino alla metà del secolo scorso la situazione non cambiò di molto. Il medico del manicomio, di fatto, aveva rapporti sporadici con i pazienti ricoverati; dopo averne deciso la terapia la custodia era completamente affidata al personale infermieristico, inesperto e non formato, che spesso ricorreva alla violenza come risposta alla mancanza di conoscenza e di formazione specifica.! In Italia la legge del 1904 “Disposizioni sui manicomi e gli alienati”, passata alla storia come “Legge Giolitti”, e il regolamento contenuto nel “Regio Decreto” del 1909, posero i principi e la filosofia che regolarono per oltre mezzo secolo la politica inerente il

trattamento della malattia mentale. In base a tali provvedimenti le funzioni del manicomio erano stabilite in:! •

custodia delle persone affette da alienazione mentale, quando fossero giudicate pericolose a sé o agli altri o di pubblico scandalo, attraverso la vigilanza al Ministero degli Interni a ai Prefetti;!



iscrizione al casellario giudiziario;!



perdita dei diritti di cittadinanza;!



cura di tali persone;!



salvaguardia dell’interesse degli infermi e della società.!

Funzioni chiaramente e assolutamente non conciliabili, data la contraddizione esistente fra una pretesa terapeutico-riabilitativa e la funzione custodialistica e repressiva (Nicoli e Zani, 1998). ! La malattia mentale era considerata inguaribile perché causata da alterazioni organiche irrecuperabili. Il malato era segregato definitivamente una volta entrato nell’istituzione, completamente abbandonato a se stesso. Il manicomio occultava le ingiustizie sociali, nacque e si mantenne di fatto come risposta di classe nei confronti degli emarginati, paradossalmente come garante dell’esistenza della malattia mentale tramite la completa spersonalizzazione del malato prima e la completa identificazione con i suoi sintomi poi. Questi, almeno fino alla metà dl XX sec., si dimostrarono essere i fini reali di una delle più temibili istituzioni totali mai concepite.!

1.2 L’evoluzione culturale dagli anni ’50 in poi (passando dal ’78…)! Negli anni ‘50 iniziarono a cambiare alcune cose nella fissità che ormai aveva assunto la realtà manicomiale. Giunsero e si diffusero anche in Italia studi di professionisti stranieri che denunciavano il carattere essenzialmente negativo e psicologicamente distruttivo dell’istituzione manicomiale, nata allo scopo di garantire una forma di controllo sociale e additata in questi lavori come, non solo antiterapeutica, ma concausa nell’insorgenza e nel mantenimento della patologia psichiatrica che paradossalmente avrebbe dovuto curare. Per citare alcuni esempi, J.Zusman si concentrò sulle conseguenze devastanti dell’istituzionalizzazione dei malati di mente, e sulla scia dei suoi studi venne introdotto il concetto di “social break-down sindrome”, che sottolinea la relazione diretta fra il decorso della malattia dell’internato e la permanenza nel particolare ambiente di vita del manicomio. Il sociologo canadese Erving Goffman (1922-1982) trattò invece del modo in cui l’individuo difende la propria identità personale all’interno delle istituzioni totali in un

imponente lavoro dal titolo Asylums (1961). Afferma l’autore che all’interno delle grandi istituzioni, quali li manicomio, il carcere, il convento, il processo a cui le persone sono sottoposte è simile a quello che si realizzava nei campi di concentramento nazisti: la spoliazione totale del sé, l’essere privati di ogni effetto personale, di ogni segno distintivo e di differenziazione, allo scopo di indurre poi lo sviluppo di un rapporto di tipo totalizzante con la struttura ospitante. La struttura soddisfa ogni tipo di bisogno, fornisce cibo, medicine, un tetto, persone con cui interagire, richiede una normalizzazione che può avvenire solo attraverso un completo abbandono della vita passata e della propria identità per adeguarsi completamente alla vita collettiva dell’istituto. ! Sull’onda degli studi citati, all’interno degli ospedali psichiatrici iniziava a svilupparsi un movimento di psichiatria alternativa, che a metà degli anni ’60 concretizzò i primi accenni di reale miglioramento ottenendo l’apertura dei reparti e la messa in discussione del ruolo del medico e di quello dell’infermiere all’interno dell’ospedale psichiatrico. Per la malattia mentale si abbozzarono ipotesi di spiegazione eziologica alternativa alla mera alterazione organica, come il disadattamento sociale e i problemi relazionali: cominciava ad essere considerata una malattia al pari di tutte le altre, socialmente situata e determinata, e socialmente (inteso come “attraverso i mezzi e le risorse che la società offre”) trattabile. Il malato divenne persona che soffre, essere umano dotato di una propria dignità da aiutare e da comprendere. La discussione passò presto dall’ambito medico a quello pubblico, trasformando un problema psichiatrico in problema politico e sociale. ! L’esito portò alla Legge Mariotti n. 431 del 1968 , che prevedeva:! •

adeguamento delle strutture e degli organici (inserimento di nuove figure professionali, uno psicologo e un assistente sanitario o sociale ogni cento letti, un infermiere ogni tre letti);!



superamento del ricovero coatto introducendo quello volontario;!



eliminazione dell’obbligatorietà di annotazione dei ricoveri nel casellario giudiziario (atto sancito come obbligatorio dalla Legge Giolitti del 1904).!

Ma la cosa più significativa è che si iniziò a discutere, soprattutto a partire dagli anni ’70, della possibilità di trasferire l’intervento sul territorio, istituendo Centri di Igiene Mentale e divisioni psichiatriche negli ospedali civili in sostituzione dei manicomi. Nel 1970 una legge sancì il decentramento dei poteri dello Stato alle Regioni, e fra questi anche la competenza sanitaria. Nacquero così a livello regionale i Consorzi socio-sanitari, che si sarebbero trasformati in Unità Sanitarie Locali. Grazie al rafforzamento dei servizi

territoriali i manicomi di Reggio Emilia, Napoli, Trieste, Arezzo, Nocera Inferiore e Perugia avviarono il processo di deistituzionalizzazione. ! Nel maggio 1978 viene poi approvata la Legge 180 (“Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”), passata alla storia come “Legge Basaglia”, dal nome dello psichiatra Franco Basaglia, che tanto lottò per il completo smantellamento degli ospedali psichiatrici. Nel dicembre dello stesso anno, la Riforma Sanitaria (Legge 833) inglobò la Legge 180 istituendo i Servizi di Salute Mentale (SSM), che non appartenevano più alla giurisdizione delle Province ma al Servizio Sanitario Nazionale. Prese il via quello che esperti di tutto il mondo considerano uno dei più radicali esperimenti nell’ambito dell’esperienza psichiatrica.! Franco Basaglia, il noto psichiatra che grazie all’impegno di una vita incise così ampiamente nella lotta alla chiusura dei manicomi, tanto da far chiamare la legge che la decretò con il suo nome, fu nominato direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia nel 1961, nel 1970 di quello di Colorno (Parma), e un anno dopo passò a dirigere l’OP “San Giovanni” di Trieste. Il modello a cui si ispirò fin da subito nella direzione di questi manicomi era quello inglese, rivoluzionario, della comunità terapeutica, fondato sui principi elaborati da Maxwel Jones. Lo scopo della comunità terapeutica era quello di costruire un ambiente terapeutico (Bettelheim, 1960) dove potersi sentire a casa, libero e autonomo, provvisto di uno spazio personale, supportato in ogni momento nell’affrontare il proprio problema. Nasce la terapia ambientale, in cui tutte le attività e tutto il personale diventano parte integrante del trattamento. I pazienti sono liberi di muoversi, il personale viene educato ad essere collaborativo ed educativo, sono favorite le attività di gruppo e vengono introdotte attività strutturate come il teatro e la pittura, oltre ai principi comportamentali della token-economy (piccole ricompense che il malato si guadagna svolgendo piccole attività responsabilizzanti, come rifarsi il letto). Tutto è riorientato verso la normalizzazione e la considerazione della persona come responsabile, capace quindi di esercitare una parte attiva nel proprio processo di guarigione. Ma quello a cui Basaglia realmente mirava, basandosi sulla profonda consapevolezza della inutilità terapeutica degli ospedali psichiatrici, era non solo il miglioramento delle condizioni di vita al loro interno, ma piuttosto la loro chiusura in quanto luoghi di segregazione.! E in effetti nel 1977 il “San Giovanni” chiuse i battenti. Un anno dopo venne approvata la Legge 180, che abrogando la legge Giolitti rappresentava la svolta decisiva per il trattamento della salute mentale in Italia. Queste le innovazioni (Nicoli, Zani 1998):!



muta lo stato giuridico del malato di mente, che mantiene i diritti civili e politici di cittadino, che sceglie liberamente il medico e il luogo dove curarsi, che deve esprimere il proprio consenso per ogni intervento, e quindi si autodetermina;!



è cancellato il giudizio di pericolosità sociale del malato di mente, quindi l’intervento di magistratura e polizia;!



l’istituzione manicomiale è superata attraverso il passaggio dal suo spazio limitato al territorio. L’ambiente naturale del malato diventa garanzia dell’efficacia dell’intervento, la degenza ospedaliera diventa una possibilità e non la regola, giustificata nella maggior parte dei casi dalla carenza di servizi extra ospedalieri adeguati;!



gli ospedali psichiatrici non possono più accettare nuovi ingressi, né possono essere costruite nuove strutture, in prospettiva della eliminazione definitiva;!



i problemi psichici non sono più concepiti come di esclusiva competenza psichiatrica, ma devono trovar risposta nell’insieme dei servizi sanitari e sociali presenti sul territorio. !

L’assunto di base è che i problemi, che prima il manicomio occultava, dovevano trovare risposta in un sistema di servizi territoriali ed extra ospedalieri. La malattia va quindi affrontata là dove si sviluppa, nella complessità del reale che la determina, la condiziona, ma si presenta anche come risorsa per affrontarla (Benigni et al., 1980). ! La Legge n. 833 del 1978 volle introdurre in ambito sanitario un modello di welfarestate di tipo universalistico, avendo come scopo quello di creare un Servizio Sanitario Nazionale che potesse garantire uguali prestazioni per tutti i cittadini. Le linee guida della Legge sono:! •

lo spostamento del focus dell’intervento dalla cura alla prevenzione, da svolgersi sul territorio, nella sua triplice accezione di prevenzione primaria, quando è volta a evitare l’insorgere di malattie nell’uomo sano o situazioni sociali capaci di sconvolgerne l’equilibrio; prevenzione secondaria, quando con mezzi come la diagnosi e la cura precoce individua e interviene sui sintomi primari; prevenzione terziaria, quando tramite strumenti quali la cura e la riabilitazione interviene per evitare l’aggravarsi di stati patologici conclamati (Amerio, 2000);!



il superamento di ogni intervento che potesse portare in qualche modo ad emarginare il malato dal proprio contesto sociale, come i ricoveri in istituzioni totali, e la promozione a tal fine dell’assistenza domiciliare;!



il decentramento, perché obiettivi di questo genere per essere perseguiti necessitano di un assetto istituzionale e organizzativo che si basi su di una lettura dei bisogni, oltre che di una programmazione dei servizi e un continuo monitoraggio degli stessi che tenga conto delle caratteristiche specifiche dell’area in cui si trovano e della popolazione a cui si rivolgono.!

2. Cosa si fa: verso una comunità competente 2.1 Lo stato dei servizi! Il perno della trasformazione che ufficialmente si avvia con la Legge 180 del 1978 consiste in un passaggio, nell’ambito dei servizi psichiatrici, da una strutturazione centrata intorno all’ospedale psichiatrico, a un’organizzazione diffusa in strutture flessibili dislocate nella comunità. ! Passati quasi trent’anni dalla promulgazione della legge, come si configura lo “stato dell’arte” in Italia? Un cambiamento radicale nell’assetto dei servizi psichiatrici si è realizzato solo parzialmente. Numerose sono le di fficoltà di ordine burocratico, organizzativo, finanziario e culturale che si sono presentate, infatti un sistema di alternative efficaci in termini di cultura e di nuovi servizi stenta a porsi in atto. La Legge 502 del 1992 ha promosso la riforma del Servizio Sanitario Nazionale portandolo verso l’aziendalizzazione, ma le difficoltà conseguenti in termini di riorganizzazione interna delle USL e introduzione della logica di mercato si scontrano con ciò che il Progetto Obiettivo Tutela della Salute Mentale del 1994-96 promuove, cioè mantenere strutture pubbliche finalizzate a garantire assistenza negli ambiti preventivo, riabilitativo, terapeutico e di reinserimento sociale. ! Oggi il Dipartimento di Salute Mentale (DSM) rappresenta l’insieme delle strutture volte all’assistenza psichiatrica della AUSL, quindi ad esso sono ricondotte tutte la attività, territoriali e ospedaliere, anche quando gestite da terzi (il cosiddetto “privato sociale”, cioè strutture private erogatrici di servizi ma finanziate da fondi pubblici), che si sviluppano in questo ambito. I DSM presentano un bacino d’utenza definito (solitamente di non più di 150.000 abitanti, anche se le Regioni hanno la potestà per modificare questo dato), un organico pluriprofessionale adeguato, una sede, ambulatori, posti letto ospedalieri,

strutture residenziali e semiresidenziali. Le Regioni determinano l’organizzazione dei DSM adeguando alla specificità delle situazioni locali alcune indicazioni di massima:! •

presenza di almeno una struttura territoriale, il Centro di Salute Mentale (CSM), che è la sede organizzativa del Dipartimento con attività ambulatoriali e domiciliari;!



presenza di almeno un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC), che presenti un posto letto ogni 10.000 abitanti minimo;!



presenza di strutture per attività in regime semiresidenziale (centro diurno, day hospital), che presentino un posto ogni 10.000 abitanti minimo;!



presenza di strutture per attività in regime residenziale, che presentino un posto ogni 10.000 abitanti minimo;!



un organico che comprenda: psichiatri, psicologi, operatori tecnici di assistenza (OTA), assistenti sociali, infermieri specializzati, educatori, ausiliari, personale amministrativo, con la media di almeno un operatore ogni 1.500 abitanti.!

L’obiettivo di questa organizzazione capillare è limitare le ospedalizzazioni, fornendo prestazioni accessibili a tutti nel luogo di residenza, senza snaturalizzare chi eventualmente necessitasse di assistenza psichiatri...


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