Che cos\'è il nazismo PDF

Title Che cos\'è il nazismo
Author Alessandra Vittone
Course Scienze politiche e sociali
Institution Università degli Studi di Torino
Pages 17
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Summary

"Che cos'è il nazismo" di Yan Kershaw. Riassunto del volume diviso per capitoli, dettagliato con riferimenti al libro....


Description

Che cos’è il nazismo-Problemi interpretativi e prospettive di ricerca Capitolo 1: Gli storici e il problema della spiegazione nazismo Più di quarant’anni dopo la distruzione de Terzo Reich, gli storici più eminenti sonno lontani dal trovarsi d’accordo su alcuni tra i più fondamentali problemi relativi all’interpretazione e alla spiegazione del nazismo. Non sorprende però che negli scritti sul passato immediato occupassero un gran posto la recriminazione sul lato alleato e un propensione apologetica sul lato tedesco. La maggior parte dei progressi decisivi alla conoscenza di molti aspetti vitali del dominio nazista sono stati apportati da storici e studiosi tedeschi. Anche in questo caso però i limiti del consenso affiorano rapidamente, perché il nazismo solleva questioni d’interpretazione storica che hanno una fisionomia peculiare. Ci sono tre dissensi fondamentali che aleggiano intorno alla spiegazione del nazismo: una dimensione storico-filosofica, una politico-ideologica e una morale. Questi connotati sono condizionati da un elemento centrale nella coscienza politica di entrambi gli Stati post-bellici: l’esigenza di padroneggiare il passato nazista, di fare i conti con la storia recente della Germania e di trarne le necessarie lezioni. Nella Repubblica federale il problema di fare i conti con il passato è stato affrontato in maniera meno unilineare rispetto alla Repubblica democratica tedesca, le controversie in materia di interpretazione del nazismo sono state innanzitutto controversie tedesco-occidentali. Questo non significa che si debba lasciare da parte la letteratura internazionale, anzi molte volte il distacco degli storici stranieri a fornito il trampolino di lancio per impulsi originali e metodi nuovi. Per esempio è stato detto della Repubblica federale tedesca che questa sia “uno Stato nato dalla storia contemporanea, un prodotto della catastrofe eretto per superare la catastrofe”. In questo caso lo storico ha un ruolo molto più scopertamente politico che non per esempio uno dell’Inghilterra, anche perché è visto come il custode e il critico del presente. Il nesso tra la mutevole prospettiva della ricerca storica e l’opera di formazione della coscienza politica è riconosciuto esplicitamente tanto dalla corrente revisionista che dalla corrente tradizionalista. Un punto preliminare molto importante è chiarire che nello studio dello storico sia molto importante rendere in considerazione l’inadeguatezza delle fonti. Malgrado la vastità delle superstiti reliquie archivistiche del Terzo Reich, la documentazione è estremamente frammentaria e i gravi problemi di interpretazione sono legate alle deficienze basilari nella natura delle fonti. Alcuni documenti cruciali furono distrutti volontariamente verso la fine della guerra, oppure andarono perduti. Ma le lacune che presentano alcune fonti sono il frutto di come funzionava la burocrazia nel regime nazista e quelle più evidenti riguardano la natura di Hitler e il suo ruolo nel governo del Terzo Reich. Il Fuhrer aveva infatti uno stile antiburocratico e solo di rado le sue decisioni venivano formalmente registrate, è difficile persino stabilire quali informazioni e materiali governativi raggiungessero Hitler. La dimensione storico-filosofica Due punti possono essere fissati: il primo è che l’esistenza di differenze in materia di approccio, metodo e filosofia non esistono solamente storiografia del nazismo, anche se trattando questo tema sono in maggiore risalto. Il secondo punto è che l’asprezza del dibattito sul metodo nascono dalla tradizione storiografica tedesca applicate al tema del Terzo Reich. La fisionomia della storiografia tedesca postbellica è stata plasmata da un certo numero di fattori specifici, che distinguono la storiografia della Germania con quella degli altri Paesi, dietro l’intero processo stava la necessità di fare i conti con l passato nazista. Lo sviluppo degli studi storici nella Germania occidentale post-bellica può essere diviso in tre fasi: un periodo di perdurante storicismo, che dura fino al principio degli anni sessanta, una fase transitoria di

trasformazione, che si prolunga fino alla metà del decennio successivo e una fase in cui può dirsi che siano insediate nuove forme di “storia sociale” a base strutturale allineate con le scienze sociali. Fin dall’epoca di Ranke, la tradizione storicistica aveva esercitato sulla filosofia della storia e sulla storiografia tedesca un’egemonia incomparabilmente maggiore di quanto sia dato constatare per qualsivoglia filosofia della storia in qualunque paese. Essa poggia su un concetto idealistico della storia come sviluppo culturale foggiato dalle “idee” degli uomini quali si rivelano nelle loro azioni, da cui si riteneva possibile dedurre le loro intenzioni , i loro motivi e la loro autoriflessione. In pratica questo portava a riflettere massicciamente sul carattere unico degli eventi e dei personaggi storici, sulla dominante importanza della volontà e dell’intenzionalità nel processo storico e sulla potenza dello Stato in quanto fine a se stessa. I due maggiori storici della Germani post-bellica furono Meinecke e Ritter le loro idee erano profondamente radicate nella tradizione idealistica tedesca del pensiero storico politico. Le loro due opere furono in sostanza dei tentativi per giustificare l’idealismo tedesco e la tradizione politica nazionale. Secondo questa concezione il nazismo era una sorta di escrescenza parassitaria riducibile alle forze negative che erano affiorate per la prima volta durante la Rivoluzione Francese e che coesistevano con uno sviluppo dello Sato tedesco generalmente sano e positivo. Secondo questa interpretazione il nazismo era pertanto il risultato terribile di tendenze non specificatamente tedesche, ma europee. Esso segnava una rottura con il “sano” passato tedesco piuttosto che esserne il prodotto. Il nazismo rappresentava dunque un incidente e il mostro era il “demonio Hitler”. All’inizio degli anni sessanta la “controversia Fischer” segnò l’inizio di un rapido declino dell’influenza dello storicismo. Impiegando metodi di ricerca interamente tradizionali Fisher metteva in evidenza gli scopi di guerra aggressivi ed espansionistici delle élites tedesche nel primo conflitto mondiale e così facendo demoliva in radice il discorso secondo il quale uno sviluppo fino allora fondamentalmente sano era per una ragione o per l’altra deragliato dopo la guerra. Il processo di trasformazione iniziato da Fischer fu alimentato dall’indebolimento delle vecchie rigidezze causato dall’espansione del sistema universitario, dalle sfide alla professione storica nascenti dei progressi compiuti nel campo delle scienze sociali, e dai mutamenti del clima politico e intellettuale che accompagnarono la fine di un lungo ciclo di predominio conservatore e il movimento “studentesco” degli ultimi anni sessanta. L’approccio alla nuova storia sociale, secondo il quale una disciplina integrata, provvista di un preciso fondamento teorico, doveva costruire un’analisi strutturale della storia della società, affermando la necessità di subordinare il concetto di politica al concetto di società. Il maggiore protagonista di questo approccio è Wehler, anche se non è considerato uno specialista del nazismo. Tra i critici più eminenti della nuova storia sociale che erano al tempo stesso i difensori dei meriti della storia politica convenzionale fu Hillgruber, ma anche Hildebrand. Il primo spezzò una lancia a favore della restituzione di un ruolo centrale alla storia politica moderna, ma criticò duramente le pretese stravaganti esagerate della scienza sociale. Secondo lui gli storici che si affiancavano a questo approccio non erano adatti a dare luce sul sistema internazionale e sui rapporti di forza. Hildebrand prese a bersaglio l’applicazione di costrutti teorici, poiché l’azione politica dev’essere cercata nelle fonti e nella critica delle fonti, nella valutazione della situazione particolare, delle aspirazioni e decisioni individuali, degli eventi accidentali e inattesi. L’applicazione di costrutti teorici gli appariva metodologicamente dubbia. Wehler replicò che anche l’approccio di Hillgruber aveva bisogno di puntelli teorici e concettuali e che la centralità da lui attribuita agli scopi dei gruppi dirigenti, alle idee politiche e alle intenzioni conduceva fatalmente verso una storia politica delle idee che non apriva alcun paesaggio nuovo. Hildebrand rispose in modo più aspro, in quanto lo accusò di esagerazione retorica e di prendersela con dei bersagli di comodo, in un punto sembrava addirittura implicare che aveva deliberatamente manipolato una citazione. Questi duri scontri sugli orientamenti teorici e sulle questioni di metodo hanno un’incidenza diretta sulla natura di alcune delle controversie interpretative chiave riguardanti il nazismo. Essi mettono in luce le

difficoltà teoriche insite nella conciliazione di un approccio “strutturale” alla storia del nazismo con un approccio personalistico. In secondo luogo mettono in luce le difficoltà che lo storico ha con le sue fonti e in terzo luogo sollevano la complessa questione della posizione politica dello storico, del suo rapporto con le circostanze politiche in cui vive e lavora. Dall’approccio teorico concettuale di Wehler discende un’istintiva preferenza metodologica, una simpatia per gli storici definiti come revisionisti, ovvero coloro che senza pensare affatto a impiegare consapevolmente un grande armamento teorico, hanno affrontato problemi complessi. La disputa sul metodo storico ha messo in risalto il problema costituito dal come lo storico costruisce la sua spiegazione a partire dalle fonti. Nel terzo punto solleva un’importante problema, ovvero quella politico ideologica. La dimensione poitico-ideologica Bisogna prendere in esame due aree: i modi in cui la divisione della Germania ha forgiato su entrambi i lati del Muro le premesse politico-ideologiche dell’interpretazione del nazismo e in secondo luogo i modi in cui le differenze politico ideologiche hanno plasmato i principi cui si è rifatta la letteratura del nazismo all’interno della Repubblica Federale. Nella Repubblica Democratica tedesca ancorata ai principi marxisti-leninisti, l’antifascismo fu un’indispensabile pietra angolare dell’ideologia e della legittimità dello Stato. Di conseguenza il lavoro storiografico sul fascismo hitleriano ebbe sempre una diretta rilevanza politica. Siccome si pensava che il fascismo si pensava fosse un frutto intrinseco del capitalismo, la ricerca storica il compito di istruire i cittadini tedeschi orientali non soltanto sugli orrori e i mali del passato, ma soprattutto sugli orrori e mali del presente e futuro, ossia del fascismo che si pensava fosse portato dall’imperialismo capitalistico. Nella Repubblica Federale tedesca la concezione di nazismo poggiava su una lunga tradizione: il fascismo era la dittatura più apertamente terroristica degli elementi più reazionari imperialisti del capitale finanziario. Lo scopo principale dichiarato dalla costituzione tedesco occidentale era l’eliminazione del potenziale per la creazione di un sistema totalitario, e non soltanto quale era esistito nel Terzo Reich, ma quale continuava a esistere nell’Unione Sovietica e nella zona sovietica della Germania. Nella Repubblica Federale l’approccio del totalitarismo dominò la ricerca nel campo della storia contemporanea negli anni ’50 e nei primi anni ’60. I lavori pionieristici di Bracher sulla fine della Repubblica di Weimar e sulla presa del potere nazista figurano tra gli esempi più illustri. Nella Germania occidentale la sfida al dominio della teoria del totalitarismo e la rinascita delle teorie incentrate sul fascismo emersero negli anni ’60 su due punti distinti: quello della cultura accademica e quello della polemica politico-ideologica. Una rinascita marxista e della Nuova sinistra ha accresciuto la complessità e la confusione dei concetti, in specie nelle “richieste di teoria, avanzate con grande veemenza” e nell’attacco radicale sferrato contro i precedenti modelli interpretativi, nati essenzialmente dallo sforzo di padroneggiare il passato compiuto dopo le catastrofi del ’33 e del ’45. Tirate le somme l’utilizzazione di nuove fonti e l’intensificazione della ricerca empirica avevano di certo allargato la base per un solido lavoro specializzato. Ma tutto ciò mal si accompagnava con la tendenza a fare della critica contemporanea del capitalismo della democrazia il fondamentale tema guida della ricerca. La dimensione morale La prima letteratura post-bellica del nazismo aveva un forte contenuto morale. Gli storici delle potenze vincitrici erano ansiosi di trovare nel nazismo una conferma di tutti i peggiori tratti presenti dei tedeschi da secoli; e dal sostegno di massa da cui Hitler aveva palesemente goduto negli anni ’30 deducevano l’esistenza di un peculiare “malanno tedesco” e una facile assimilazione di tedeschi e nazisti. Studi più recenti si sono completamente staccati dall’indignazione e dal risentimento dalla condanna e dall’apologia che

caratterizzano il periodo post-bellico, un forte elemento morale rimane una presenza latente. Tutti gli studiosi seri, specialmente quelli tedeschi, dimostrano una avversione morale nei confronti del nazismo. Mentre tradizionalmente gli storici impiegati in una comprensione simpatetica del loro oggetto evitando giudizi morali, nel caso del nazismo e di Hitler l’impresa è chiaramente impossibile. Sauer ha formulato il problema nei termini seguenti: “con il nazismo lo storico ha di fronte un fenomeno che, qualunque sia la sua posizione individuale non gli lascia aperta altra via che il rifiuto”. Bracher sostiene che i recenti approcci marxisti e della “Nuova Sinistra”, ma anche di qualche liberale borghese, si risolvano in una grossolana sottovalutazione della realtà del nazismo, come se le barbarie dagli anni ’33 agli anni’45 scomparissero a livello morale. L’accusa della banalizzazione solleva palesemente la questione del fine morale dello scrivere del nazismo. Dobbiamo proporci di imparare a conoscere a malvagità del nazismo comprendendolo? O quello che conta è di compiere simultaneamente un atto di memoria ed ammonimento? Questo ultimo punto stette molto a cuore alla scrittrice Dawidowicz, che scrisse un volume totalmente dedicato alla moralità della storiografia dell’olocausto. Capitolo 2: L’essenza del nazismo: forma di fascismo, varietà di totalitarismo o fenomeno unico? Sulla natura e sul carattere del fenomeno nazista si discute fin dagli anni ’20. Se in quel periodo i teorici del Comintern categorizzavano il nazismo come una forma di fascismo generata dal capitalismo in crisi, di lì a poco gli autori borghesi avrebbero cominciato ad associare destra e sinistra in quanto nemici totalitari della democrazia. Questa teoria riemerse dopo gli anni ’40, nell’epoca della Guerra Fredda le interpretazioni di sinistra del nazismo come una forma di fascismo crollarono mentre le teorie incentrate sul totalitarismo conobbero il loro apogeo, per ritrovarsi poi sotto attacco nel periodo dopo la distensione. L’interesse della nascita del fascismo in quanto fenomeno generale si rispecchiò in una grande fioritura di studi dovuti ad autori non solo di sinistra, ma anche liberali: studi che costrinsero il totalitarismo sulla difensiva. La discussione sulla questione se il nazismo vada considerato un tipo di fascismo o se si debba invece vedervi una forma impressionante di dominio totalitario non si è ancora esaurita, meno che altrove nella storiografia tedesco-occidentale. Vi è un terzo filone interpretativo che afferma che il nazismo possa essere spiegato come un prodotto delle peculiarità che hanno segnato lo sviluppo prussiano-tedesco nel corso dei cento anni precedenti. Gli storici sociali concentrandosi sulle cause del nazismo hanno messo in risalto una via specifica alla modernizzazione tedesca: in Germania sono sopravvissute tradizioni autoritarie feudali pre-industriali, pre-capitalistiche e pre-borghesi, coesistendo in tensione con un economia capitalistica dinamica, fino ad esplodere in una protesta con la crisi economica. Gli esponenti di questa corrente affermano vi sia un parallelismo con altre situazioni simili, per esempio con l’Italia, considerando il nazismo come una forma di fascismo in termini delle sue origini socio-economiche. All’opposto la posizione alternativa insiste sulle caratteristiche borghesi della società politica tedesca tardo-ottocentesca e la necessità di spiegare il nazismo attraverso le particolari instabilità della forma di capitalismo e di Stato capitalistico che esisteva in Germania. Gli storici di entrambi le fazioni affermano che con tutte le sue peculiarità il nazismo appartiene ad una più ampia categoria id movimenti politici definiti fascisti. Più esclusiva è invece l’ideologia che afferma che le singolarità del nazismo sono date dal fatto che sia un prodotto della recente storia prussiano-tedesca, che è un elemento importante proposto soprattutto dagli storici tedesco-occidentali. Il nazismo fu un fenomeno sui generis che emerse dal peculiare retaggio dello Stato autoritario prussiano-tedesco e dello viluppo tecnologico tedesco, ma deve soprattutto la sua unicità alla figura di Hitler. Il contributo ideologico e politico di Hitler fu di tale portata nel movimento nazista che qualunque tentativo di etichettare il nazismo come fascismo, comparandolo con movimenti consimili sembra quasi privo di senso. Per questo tipo di corrente è giusto parlare del nazismo come Hitlerismo.

Il totalitarismo E’ sbagliato considerare il totalitarismo come un prodotto della Guerra Fredda, benché in quel periodo abbia conosciuto la sua fioritura. Il suo uso risale agli anni ’20, ma al termine della Seconda Guerra Mondiale fu il più veloce a guadagnarsi il consenso generale in quanto teoria ufficiale. Il termine fu coniato in Italia nel ’23 e venne impiegato dagli antifascisti. Mussolini se ne impadronì quando parlò della “fiera volontà totalitaria” del suo movimento. Dopo allora la parola fu usata in tono lusinghiero per dipingere se stessi da Mussolini e da altri fascisti italiani, e quindi dai legalisti tedeschi e dai nazisti. Anche Gentile la utilizzò più volte, avendo però in mente uno Stato onnicomprensivo che avrebbe superato la divisione Stato-società. Queste due visioni coesistettero fianco a fianco, ma tuttavia l’uso che ne fecero i tedeschi fu alquanto diverso , ma tuttavia affine e caratterizzato dalla stessa duplicità semantica. Il termine totalitarismo sembra essere stato utilizzato come etichetta degli Stati fascisti e comunisti in Inghilterra per la prima volta nel ’29. “Origin of totalitarism” di Hanna Arendt è una denuncia della disumanità e del terrore spersonalizzati e razionalizzati sotto la specie delle leggi obiettive della storia. La sua visione del nazismo caratterizzato da un dinamismo intrinseco, da una spinta congenita nel senso della radicalizzazione e della destrutturazione. Per quanto riguarda il comunismo è invece meno soddisfacente. Anche gli scritti di Friedrich furono piuttosto influenti, molti importanti sono i sei punti che egli delineò per caratterizzare il totalitarismo. In seguito alla stabilizzazione dell’Unione Sovietica nell’era post-staliniana, i teorici del totalitarismo concentrarono di preferenza l’attenzione molto più sui contemporanei regimi di blocco orientale che sul regime nazista, e si divisero tra chi allargava il concetto di totalitarismo a tutte le manifestazioni di dominio comunista e chi si limitava allo stalinismo. Nel frattempo il concetto di totalitarismo era divenuto il sostegno fondamentale per alcune interpretazioni del nazismo come per esempio quelle di Bracher, il quale afferma che ci vuole molta cautela per sviluppare una teoria generale del totalitarismo e che la ricerca è essenziale per mettere in luce le svariate forme del dominio totalitario. Per lui i connotati decisivi del totalitarismo stanno nella sua pretesa di dominio totale, nell’ideologia esclusiva e nella finzione dell’identità di governanti e governati. Il pregio fondamentale del concetto di totalitarismo sta dunque nella sua capacità di distinguere nettamente tra dittatura e democrazia, ma anche le teorie totalitarie hanno i loro punti deboli. Il fascismo Una nuova ondata di interesse per il fascismo che aveva caratterizzato numerose nazioni tra le due guerre fu data anche dall’influente lib...


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