Il selfie del mondo - Marco d\'Eramo PDF

Title Il selfie del mondo - Marco d\'Eramo
Author Simone Fabbri
Course Geografia
Institution Università di Bologna
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Ladri di Biblioteche

Marco d’Eramo Il selfie del mondo Indagine sull’età del turismo Nuova edizione rivista e aggiornata

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione digitale 2019 da prima edizione (rivista e aggiornata) nell’“Universale Economica” – SAGGI giugno 2019 Ebook ISBN: 9788858836453 In copertina: © Brian Barth.

Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

1. La più importante industria del secolo

Roma: ad agosto la città deserta è traversata solo da frotte di turisti accaldati, assorti nel loro stremante dovere: volti paonazzi, bottiglioni di plastica in mano. Le serrande sono chiuse. I senzatetto occupano le strade dormendovi anche di giorno. Aleggia un senso di abbandono, come se un pifferaio di Hamelin avesse portato con sé tutti i residenti. Così ci si mostra infine la città turistica nella sua estrema verità: un guscio vuoto, un fondale di teatro. “Città turistica”, una nozione così scontata da sembrare ormai lisa. E invece nessuna civiltà in nessuna era e in nessun luogo ha mai conosciuto qualcosa che potesse essere definito una “città turistica”, che – in quanto tale – è una novità inedita propria della modernità. Il turismo appartiene a quella categoria di fenomeni sociali, come lo sport o la pubblicità, che sono onnipresenti, familiari, ma sempre e comunque indigeriti, inelaborati: eludono le domande, neutralizzano la riflessione. Come per lo sport e per la pubblicità, anche per il turismo la bibliografia è ormai sterminata, ma l’elaborazione concettuale frammentaria: i testi abbondano, ma le idee nuove sono piccole pepite in una massa immane di terriccio. E i contributi davvero originali si contano sulle dita delle mani. Il turismo è perfino più importante dello sport e della pubblicità, tanto che la nostra epoca può essere seriamente definita “l’età del turismo”, come si è parlato dell’età dell’acciaio o dell’età dell’imperialismo. Ma se il turismo definisce un’intera epoca, la nostra, allora quest’era, come tutte le ere, ha avuto un inizio e avrà una fine, un’ipotesi implicita sul futuro che va verificata. Parlare di “età del turismo” non è solo un modo di dire. E se ne possono dare subito due ragioni (altre verranno esposte in seguito). 1) Nel nostro tempo, per la prima volta nella storia umana, la causa scatenante del crollo di un grande impero (l’equivalente di quel che era stato l’omicidio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo per lo scoppio della Prima guerra mondiale) è stata una rivendicazione di turismo. Pochi

ricordano che la catena di eventi che avrebbe portato alla caduta del Muro di Berlino fu innescata nell’agosto del 1989 dalla decisione delle autorità ungheresi di rimuovere le barriere alla frontiera con l’Austria, in seguito alla quale 13.000 turisti della Germania orientale (Ddr) passarono il confine. Il governo della Ddr reagì chiudendo la frontiera con l’Ungheria, ma subito furono presentate decine di migliaia di richieste di visto turistico alle ambasciate polacca e cecoslovacca per aggirare il divieto e raggiungere Budapest via Praga e Varsavia. Finché il 9 novembre il governo fu costretto a concedere a centinaia di migliaia di cittadini in attesa davanti al Muro il permesso di passare a Occidente, e rese irreversibile il processo che meno di due anni dopo avrebbe portato al crollo dell’Unione Sovietica. Solo cinquant’anni prima sarebbe stato impensabile che un impero dotato di armi atomiche e di un enorme apparato militare fosse costretto a una resa umiliante da una richiesta di visti! La centralità politica che ha acquistato il turismo nelle nostre società è evidenziata anche dalla nascita di un “terrorismo turistico”. In due sensi. In un primo senso, quando uccide i turisti – come avvenne a Luxor in Egitto il 17 novembre 1997 quando 62 persone, tra cui 58 turisti, furono uccise presso il tempio funerario della regina Hatshepsut; o come a Bali, in Indonesia, il 12 ottobre 2002 quando 202 persone (di cui 164 turisti) furono uccise da bombe al Paddy’s Pub; oppure come nell’attentato contro il museo nazionale del Bardo a Tunisi, il 18 marzo 2015, in cui morirono 24 persone tra cui 21 turisti; o ancora l’esplosione in volo, il 31 ottobre 2015, di un aereo russo che riportava a casa 217 turisti dalla località balneare egiziana di Sharm elSheikh; o ancora l’attacco suicida nel cuore della Istanbul turistica a Sultanahmet, vicino alla Moschea Blu, il 12 gennaio 2016, in cui perirono 13 persone, tutte turisti; o i 16 morti e i 130 feriti dell’attentato a Barcellona il 17 agosto 2017.1 In un secondo senso, quando distrugge attrattive turistiche quali monumenti, templi, rovine, cittadelle: la lista di queste distruzioni è sterminata e si allunga ogni giorno: basti ricordare in Afghanistan i due Buddha di Bamiyan fatti saltare nel 2001 dai taleban; in Iraq il minareto della Grande Moschea di Samarra abbattuto nel 2005; in Libia la necropoli di Cirene rasa al suolo nel 2011; in Mali il santuario e le case storiche di Timbuctu abbattuti nel 2012; con una netta accelerazione nel 2015, quando sono stati danneggiati l’anfiteatro romano di Bosra e la città antica di Palmira in Siria, la cittadella di Baraqish in Yemen, e sono state distrutte le splendide

rovine assire di Nimrud e Hatra in Iraq. Ancora nel gennaio del 2017 è stato fatto saltare un anfiteatro di Palmira… Le attrattive turistiche sono un bersaglio perché hanno un valore simbolico, di emblemi dei valori contro cui si combatte, ma vengono distrutte anche per sottrarre all’avversario risorse economiche in quanto esse sono fonti di entrate sempre più cospicue. 2) E così veniamo all’altra ragione per cui il turismo giunge a definire tutta la nostra epoca. Una ragione che è sotto gli occhi di tutti: il turismo è ormai la più importante industria di questo nuovo secolo. *** Secondo l’Organizzazione mondiale del turismo (Unwto), nel 2017 i ricavi del turismo internazionale ammontavano a 1580 miliardi di dollari.2 E il turismo internazionale è ovunque minoritario rispetto a quello locale: nel 2016 a New York sono arrivati 12,7 milioni di visitatori esteri e ben 47,8 milioni di statunitensi.3 La Francia incassa dal turismo interno più del doppio (108,1 miliardi di euro) rispetto al turismo estero (50,8 miliardi di euro, dati del 2016)4 eppure è il paese più visitato al mondo dagli stranieri: nel 2016 i visitatori esteri sono stati 82,6 milioni, contro i 75,6 milioni negli Usa, 75,3 in Spagna, 59,3 in Cina, 52,4 in Italia.5 Negli Stati Uniti gli introiti dovuti al turismo internazionale sono stati di 155,8 miliardi di dollari nel 2017, mentre gli introiti totali del turismo domestico sono stati 879,9 miliardi di dollari6 (più del quadruplo). È stato calcolato che il fatturato globale del turismo è circa il quintuplo di quello del turismo internazionale e nel 2016 valeva 8272 miliardi di dollari (il 10,2% del Pil mondiale, ovvero una volta e mezzo il Pil del Giappone, la terza potenza economica del pianeta), impiegando 312 milioni di posti di lavoro (il 9,9% dei posti di lavoro totali).7 Sarebbe difficile sopravvalutare l’impatto del turismo sulle economie nazionali. Per l’Europa l’apporto (diretto e indiretto) del turismo al Pil europeo è stato del 9,7% nel 2016. Senza arrivare alla Spagna dove il turismo contribuisce addirittura al 14,9% del Pil e al 15,1% dell’occupazione totale, in Francia il turismo rappresenta l’8,9% del Pil e contribuisce per il 9,9% all’occupazione, mentre in Italia fornisce il 13% del Pil e il 14,7% dell’occupazione (dati del 2017).8 Più in generale si può dire che il turismo ha un’importanza abnorme in quei paesi o in quelle città in cui il numero degli arrivi stranieri supera il numero degli abitanti (come avviene in Francia, Spagna, Grecia, Portogallo, ma anche Repubblica Ceca). D’altronde, se

durante la grande crisi finanziaria del 2008-2009 la capitale mondiale della finanza, cioè Londra, non ha troppo sofferto della recessione, lo ha dovuto al fatto che il deprezzamento della sterlina ha favorito un aumento del turismo estero che ha compensato in termini di occupazione e di incassi le perdite registrate dalla City sul fronte finanziario. Ma in realtà, al fatturato diretto bisogna aggiungere tutto l’a-monte e l’avalle del turismo. Oltre all’industria alberghiera e la quasi totalità di quella della ristorazione, bisogna contare il fatturato dei trasporti turistici. Per esempio, gli incassi del trasporto aereo di passeggeri internazionali ammontavano nel 2015 a 718 miliardi di dollari.9 A queste voci, che fanno parte a pieno titolo del capitolo “turismo”, bisogna aggiungere altre industrie: intanto quella aeronautica (e aeroportuale) che lavora in gran parte per il turismo, come anche la cantieristica navale da crociera e da diporto. Il turismo alimenta poi una bella fetta di industria automobilistica, di edilizia (residenze secondarie, alberghi, villaggi turistici) e di costruzione stradale e autostradale (quindi, via via, di cementifici, di siderurgia e industria metallurgica). È chiaro che l’edilizia non è nata come industria funzionale al turismo (preesiste di qualche migliaio di anni), però bisognerebbe valutare quanti edifici in meno verrebbero costruiti senza il turismo: per constatare la dimensione colossale della speculazione edilizia turistica basta percorrere in Spagna la litoranea dell’Andalusia con i suoi orribili palazzoni seriali, o in Turchia quella dell’Egeo in cui si susseguono sterminate, squallide e spesso vuote Site in attesa di acquirenti, per lo più turchi emigrati in Germania. Nello stesso modo l’industria aeronautica è concettualmente indipendente dal turismo, ma andrebbe valutato quanti aerei in meno volerebbero se non ci fosse turismo. Sarebbe interessante tracciare la matrice di Leontief per il turismo. Vi è poi l’industria dei souvenir, delle cartoline, delle guide turistiche e carte geografiche… Senza contare altre industrie meno rispettabili che vivono solo grazie a questo settore dell’economia mondiale. Ormai esiste una galassia di istituzioni e di società (agenzie di viaggio, catene alberghiere, editori di guide turistiche, agenzie pro loco, agenzie pubblicitarie, interi dipartimenti statali e degli enti locali, appositi servizi bancari incaricati di concedere e smerciare mutui per finanziarsi le vacanze, imprese immobiliari e la lista non finirebbe mai), quel che Stephen Britton ha chiamato il “tourism production system”, l’apparato produttivo turistico.10

Ma proprio perché comporta un’infrastruttura (e una “sovrastruttura”) così pesante, il turismo è anche l’industria più inquinante: secondo la World Tourism Organization delle Nazioni Unite, il puro e semplice trasporto aereo turistico produce l’8% dell’anidride carbonica globale emessa dall’umanità11: tanto che s’invoca sempre più spesso un “turismo sostenibile”, altrettanto ossimorico dello “sviluppo sostenibile”. Ma la CO2 è solo un piccolo aspetto dell’inquinamento complessivo prodotto dal turismo. Basti pensare al turismo invernale: scendere sugli sci su una pista innevata è uno dei moti più leggiadri immaginati dall’essere umano, affidato alla pura forza di gravità e allo sfruttamento delle rughe del nostro pianeta. Ma perché si compia quest’eleganza quasi immateriale, è necessario costruire imponenti impianti di risalita, sparare con i cannoni da neve (poiché sciando ogni sciatore porta giù neve: anche se non ci fosse il riscaldamento globale e se cadessero metri di neve, la neve “naturale” non basterebbe mai). E poi strade che spaccano le valli per arrivare nelle stazioni sciistiche, e poi costruzioni a catena per far sì che lande un tempo deserte e silenti d’inverno siano oggi piccole vocianti metropoli abitate da decine di migliaia di persone che abbisognano di elettricità, servizi, acqua, rifornimenti e così modificano il clima e il paesaggio. Basta camminare in montagna d’estate per vedere le devastazioni lasciate dalle piste invernali. Il fatto è che la nostra idea d’industria (e quindi di finanza) è obsoleta: siamo soliti considerare che la “vera industria” è la miniera, la siderurgia, il cantiere navale, la fabbrica automobilistica, insomma, carbone, elettricità, acciaio, e vediamo il turismo come un fronzolo “postmoderno”, “superstrutturale”, contrapposto alla struttura “vera”, all’economia reale. In realtà l’industria più pesante, più importante, più generatrice di cash flow del XXI secolo è proprio il turismo che ci mostra quanto assurda è la contrapposizione tra moderno e postmoderno, perché, in quanto “superfluo”, il turismo rientra di diritto nel postmoderno, ma la sua materialità di acciaio, auto, aerei, navi, cementifici, lo situa tutto dentro la pesantezza industriale del moderno. *** Ricordiamo che il turismo, inteso in senso moderno, è un’invenzione del XIX secolo, che ha conosciuto il suo boom nel secolo scorso. L’Ottocento ha dato il via al turismo grazie all’incredibile rivoluzione dei trasporti e delle

comunicazioni (ferrovie e navigazione a vapore, telegrafo), ma solo nel Novecento la nostra è diventata a pieno titolo una “civiltà turistica”. Nell’Ottocento vediamo apparire con la “Thomas Cook” la prima agenzia di viaggio. Thomas Cook (1808-1892) allestì la prima escursione organizzata (1841), il primo viaggio collettivo (1845), il primo giro organizzato intorno al mondo (1872) al prezzo di 200 ghinee e per una durata di 222 giorni (tra l’altro, nel 1874, Thomas Cook inventò anche quelli che sarebbero diventati i traveller’s cheques).12 Nello stesso periodo nasceva l’industria delle guide turistiche, di cui alcune diventarono addirittura sinonimo di “guida” come la collana varata dal tedesco Karl Baedeker, o altre assai celebri, ad esempio quelle dell’inglese John Murray III (figlio del londinese John Murray che era stato l’editore di Shelley e Lord Byron e che per le guide di suo figlio inventò il termine handbook): furono le guide Murray a introdurre gli asterischi per segnalare luoghi particolarmente interessanti.13 Fin dall’inizio la possibilità di spostamento che i nuovi mezzi di trasporto offrivano a strati sempre più ampi di popolazione fece paventare un degrado del viaggio. Nel numero dell’agosto 1848, un articolo del “Blackwood’s Edinburgh Magazine”, intitolato Modern Tourism, esordiva così: “I meriti delle ferrovie e della navigazione a vapore sono stati vantati sperticatamente, e noi non vogliamo svilirne i vantaggi. Non c’è dubbio che ci trasportano da città in città con una velocità inimmaginabile per i nostri genitori […]. Senza dubbio sono davvero convenienti per il viaggiatore che desidera raggiungere l’America in due settimane […]. Ma hanno funestato la nostra generazione con un crudele flagello: hanno coperto l’Europa di turisti…”.14 La ferrovia, scriveva John Ruskin nel 1849, “trasforma l’uomo da viaggiatore in pacco vivente” perché il passeggero del treno “a malapena sa i nomi delle città dove è passato, e solo di sfuggita le riconosce dai campanili delle cattedrali più famose che gli sembrano alberi lungo una strada molto distante”: la metafora del “turista/pacco postale” avrebbe conosciuto una grande fortuna nei due secoli successivi.15 È infatti ad allora che risale la distinzione tra “viaggiatore” e “turista”, con un significato positivo riservato al primo e negativo al secondo: nel 1871, nel suo diario il reverendo Robert Kilvert scriveva: “Se c’è una cosa più odiosa di ogni altra, è sentirsi dire cosa ammirare e farselo indicare con la bacchetta Di tutti gli animali nocivi, il più nocivo è il turista”.16 Tanto che ancora oggi parliamo di “gregge di turisti”: non a caso in Francia l’espressione fu coniata

nel 1872 da quel Joseph Arthur de Gobineau che con l’Essai sur l’inégalité des races humaines è considerato il padre delle teorie razziste: “A bordo della nave […] si trovava un buon gruppo di quegli eccellenti animali che la moda espelle ogni primavera dalle loro stalle per portarli a fare, come dicono, un viaggio in Oriente”.17 Ma già sette anni prima un inglese, citato da Daniel Boorstin, per descrivere i turisti che affollavano le città italiane, usava i termini “mandria, gregge, branco” (droves, herds, flocks) paragonando il cicerone a un cane da pastore.18 Lo scorno per le masse si traduce in un aristocraticismo da paccottiglia espresso bene nel 1930 da Evelyn Waugh: “Ogni britannico all’estero, fino a prova del contrario, ama considerarsi un viaggiatore e non un turista”.19 Questo disprezzo sociale è dovuto a un meccanismo che Pierre Bourdieu evocava di continuo nel suo seminario di sociologia, per cui la lotta di classe si manifesta spesso sotto forma d’inseguimento temporale: inseguimento nell’istruzione secondaria e poi superiore: prima solo le classi dominanti ricevevano un’istruzione, poi quelle agiate, infine la scuola diventa “dell’obbligo” e la sua durata si accresce; inseguimento nell’acquisto di automobili prima riservato a pochi, poi estesosi alla quasi totalità della popolazione; inseguimento nel godimento delle vacanze. Ma nel passaggio da privilegio di pochi a pratica sociale maggioritaria, ognuna di queste “conquiste” sociali, ognuno di questi rattrapages, cambia di segno e di valore. Così la maturità liceale classica costituiva un tempo il certificato d’ingresso nella classe dominante (solo chi l’aveva conseguita poteva, per esempio in Italia, frequentare il corso di allievi ufficiali nell’esercito di leva), ma con l’istruzione di massa neanche la laurea universitaria assicura più quest’ingresso. L’inseguimento provoca quel che Pierre Bourdieu chiamava la svalutazione dei titoli scolastici (a causa dell’inflazione).20 Più in generale ogni pratica sociale più si diffonde alla “massa” e più viene svalutata nella considerazione di cui gode: La dialettica del declassamento e del riclassamento, che è all’origine di tutti i tipi d processi sociali, implica e impone che tutti i gruppi in questione corrano nella stessa direzione, verso gli stessi obiettivi, le stesse proprietà, quelle che sono loro designate da gruppo che occupa la prima posizione nella corsa e che, per definizione, sono inaccessibili agli inseguitori, poiché, quali che esse siano in sé e per sé, sono modificat e qualificate dalla loro rarità distintiva, e dunque non saranno mai più quel che sono ora

appena – una volta moltiplicate e divulgate – saranno accessibili a gruppi di rango inferiore.21

È con questa dinamica che la “villeggiatura” si trasforma nelle “ferie”. Così le tappe del disprezzo crescente dei “viaggiatori” verso i “turisti” corrispondono al diffondersi della pratica del viaggio da diporto prima dall’aristocrazia alla borghesia (Ottocento) e poi dalla borghesia al proletariato (Novecento). Già nel 1903 un certo A.I. Shand scriveva nel suo Viaggi dei bei tempi andati. Reminiscenze degli anni sessanta, paragonate con le esperienze del presente: “Allora i turisti erano una rarità e non c’era la plebe viaggiante [cheap trippers] di oggi”. Anzi: “La villeggiatura d’Europa (la Svizzera) è stata sommersa dai turisti e i santuari dove una volta regnavano supremi Caos e Tenebre primordiali sono stati dissacrati e involgariti”.22 Era dalla fine del Cinquecento che si prescriveva (e riservava) ai rampolli della nobiltà un viaggio di “piacere e di formazione”. In questo viaggio, che poi sarebbe stato chiamato Grand Tour, era indispensabile che prima di partire il giovane imparasse le lingue dei paesi da visitare e poi fosse accompagnato da un tutore che conoscesse già i luoghi e che sorvegliasse i suoi progressi, ci dice Francis Bacon nel suo saggio di due pagine intitolato Del viaggio (1625). E la classe sociale del lettore a cui si rivolge il filosofo guardasigilli è chiara dai suggerimenti che gli dà: Le cose da vedere e osservare sono: le corti dei principi, specialmente quando danno udienza agli ambasciatori; le corti di giustizia, quando sono in seduta e dibattono le cause; e così i concistori ecclesiastici; le chiese e i monasteri con i monumenti al loro interno; le mura e fortificazioni di città e cittadine, e anche i cieli e i porti; antichità e rovine; biblioteche; collegi; dispute e letture quando ve ne sono; cantieri e flotte; case e parchi; magazzini; addestramenti di cavallerizzi; scherma, allenamento di soldati e simili; commedie dove il pubblico è dei migliori; tesori ...


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