Macro Appunti lezioni integrate PDF

Title Macro Appunti lezioni integrate
Author Enrica Guida
Course Macroeconomia
Institution Università del Salento
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LEZIONE 1Differenza tra microeconomia e macroeconomiaLa macroeconomia è una branca dell’ economia politica ; nell’economia politica rientrano micro e macro economia. la microeconomia studia i comportamenti dei cosiddetti agenti economici, che sono impresa, consumatore, ecc.. Questa scienza è più ast...


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LEZIONE 1

Differenza tra microeconomia e macroeconomia La macroeconomia è una branca dell’economia politica; nell’economia politica rientrano micro e macro economia. 1) la microeconomia studia i comportamenti dei cosiddetti agenti economici, che sono impresa, consumatore, ecc.. Questa scienza è più astratta in quanto ricorre a semplificazioni assolute e inoltre qui ci sono molte verità asolute. 2) la macroeconomia studia invece il comportamento degli aggregati economici, che sono variabili economiche come reddito, occupazione, livello generale dei prezzi ecc.. Questa scienza è meno astratta della prima, ed infatti ci sono poche verità assolute ma molte teorie di funzionamento del sistema.

I modelli economici La macroeconomia è studiata attraverso dei modelli. Si definisce modello una sintesi del funzionamento della realtà economica, che ha lo scopo di mettere in relazione più variabili economiche fra loro e quindi ipotizzare l’andamento delle stesse. I modelli si basano su tre elementi: 1) individualismo metodologico: ogni teoria macroeconomica per essere considerata valida deve essere microfondata, e cioè una legge macroeconomica deve essere data dalla somma dei comportamenti dei singoli elementi interessati. 2) razionalità economica: tutti gli agenti all’interno delle teorie hanno comportamenti razionali; razionale significa che essi tendono a massimizzare la propria funzione obiettivo e quindi ad ottenere il risultato ottimo per ciascuno degli agenti. Ciò implica quindi che ci siano più scelte disponibili, e che il singolo agente scelga la migliore in termini di costo-opportunità. 3) equilibrio economico: l’equilibrio in generale è una situazione in cui è assente ogni tendenza al cambiamento; in particolare possiamo distinguere un equilibrio individuale (microeconomico) che esiste quando il singolo agente massimizza la propria funzione obiettivo, e l’equilibrio di mercato (macroeconomico) che è il risultato dell’aggregazione dei singoli equilibri individuali. Ogni modello possiede: 1) delle ipotesi essenziali: ad esempio il mercato è perfettamente concorrenziale; 2) delle variabili economiche, indicate con lettere maiuscole (P=prezzo, Y=reddito); esse sono endogene quando sono determinabili all’interno del modello (dato il valore delle variabili esogene), sono invece esogene quando sono determinate all’esterno del modello e quindi non verificabili (e di solito nei modelli queste ultime non si modificano) 3) un obiettivo, che corrisponde col problema che si intende studiare e quindi col motivo per cui il modello è stato inventato; 4) delle funzioni matematiche: esse indicano la relazione che esiste fra più variabili, e possono essere generiche se indicano una relazione generica (ex. Q=D(P,Y) ) o specifiche se indicano una precisa relazione (ex. Q= 60-30P+50Y ) Ad esempio, costruiamo un modello per determinare il prezzo di un’automobile. Abbiamo che: D o 1) le variabili economiche sono: P=prezzo auto, Q ❑ = quantità domandata, Q ❑ = quantità offerta, Y=reddito aggregato, Pm= prezzo del petrolio 2)la funzione generica è: Q D =D(P , Y )❑ 3) le variabili esogene sono reddito e prezzo del petrolio (quindi sono date per buone), le variabili endogene (da calcolare) sono il prezzo e la quantità che sarà domandata.

L’equilibrio di modello si ha quindi quando domanda e offerta si incontrano, generando il prezzo a cui le auto saranno vendute e la quantità che sarà venduta.

Un aumento del prezzo del petrolio invece ridurrà l’offerta, spostando la curva verso sinistra.

Un aumento della variabile esogena Y, cioè del reddito aggregato, sposterà la funzione di domanda verso destra.

Alcune variabili macro L’andamento di alcune variabili incide direttamente sul benessere degli individui: 1) se il PIL aumenta del 5%, la disoccupazione si riduce dell’1% (in media) 2) il rialzo dei tassi di interesse per i prestiti rende i prestiti più cari 3) l’inflazione (cioè la variazione percentuale del livello generale dei prezzi) si alza di molto in corrispondenza delle guerre; l’inflazione aumenta quando aumenta il volume monetario (quanta moneta c’è in un sistema), quando aumenta la spesa pubblica (perché poi aumenta il volume monetario). C’è poi l’inflazione da costi: un aumento dei costi produce un aumento dei prezzi, che deve produrre un aumento dei salari che produce un aumento dei costi… questa è chiamata spirale salari-prezzi, e si blocca non aumentando i salari o riducendo l’offerta di moneta. L’inflazione in Italia ha smesso di crescere quando è stato abolito il meccanismo della scala mobile (che adeguava i salari ai prezzi). Ora siamo in un periodo di inflazione bassisima (quella considerata ottimale dalla BCE e del 2% annuo). 4) deflazione: è il contrario dell’inflazione, cioè diminuiscono i prezzi; è un male, perché in questo modo si rinviano gli investimenti aspettandosi un’ulteriore deflazione. 5) le variabili possono essere nominali (prezzo) o reali (varia disoccupazione, reddito, produzione) 6) WAP= working age population, dai 15 ai 65 anni 7) disoccupazione giovanile, dai 15 ai 25 anni circa 8) NEET= not in education, employment, training; insomma, che non fanno niente. 9) risparmio: dilazione nel tempo dei consumi, oppure fondo da cui si attinge per gli investimenti

10) produttività: quantità prodotta per unità di tempo o di salario; aumenta con l’innovazione tecnologica. 11) deindustrializzazione: processo in atto in tutte le economie più avanzate, non è un male perché questi paesi si concentrano più sul terziario. 12) esternalità positive: conseguenze positive che si verificano senza che i soggetti coinvolti facciano investimenti (ex istruzione, ricerca pagati dallo stato) 13) esternalità negative: la stessa cosa al contrario, cioè conseguenze negative che si verificano senza che i soggetti paghino (ex inquinamento). 14) crescita economica= crescita del PIL; sviluppo economico=benessere, istruzione ecc. LEZIONE 2

Il debito pubblico Y=C+I+G+NX REDDITO AGGREGATO= consumi+investimenti+spesa pubblica+saldo (saldo= differenza tra esportazioni ed importazioni) Il debito pubblico rappresenta l’insieme delle passività finanziarie degli enti appartenenti al settore delle amministrazioni pubbliche. I titoli di stato, che sono titoli obbligazionari, costituiscono la maggior parte del debito pubblico. Questo dato non è tanto importante in senso assoluto quanto in relazione al Pil: un indice molto importante è appunto quello che misura il rapporto debito/PIL. L’importante quindi non è che il debito pubblico non cresca, ma che non cresca più di quanto stia facendo il PIL in quello stesso periodo. Non si deve confondere il debito pubblico con il cosiddetto disavanzo (o deficit): il deficit è infatti una variabile flusso (che varia di anno in anno) e definisce quanto è il (eventuale) disavanzo cioè la perdita dello Stato in un anno solare. Il debito pubblico è invece una variabile stock data dalla sommatoria di tutti i deficit di tutti gli anni.

Misurazione del deficit La misurazione del deficit comporta una serie di problemi: 1) l’inflazione: in generale, se varia il valore della moneta (che è lo strumento misuratore), varia ovviamente anche il valore del debito. Il debito deve infatti essere misurato in termini reali, cioè non tenendo conto dell’inflazione. Per capirlo, consideriamo un caso in cui il debito reale non sia cambiato, ma ci sia stata inflazione (che si indica con ∏): il debito nominale aumenterebbe senza che ci sia stato un vero aumento del debito pubblico. 2) i beni capitali: sono le immobilizzazioni possedute dallo stato. Esse sono importanti perché l’acquisto di beni capitali non aumenta il debito, mentre la vendita di questi non lo riduce. È però nel nostro caso la commissione europea a decidere cosa entra nel calcolo del debito pubblico e cosa invece no. 3) passività non contabilizzate: alcune passività non sono considerate, come ad esempio le pensioni che saranno pagate in futuro (che sarebbero costi futuri) e i prestiti ai privati (ex studenti e imprese) che in molti casi non sono ripagati creando appunto passività. 4) ciclo economico: il deficit non cambia solo quando ci sono interventi del governo, ma cambia automaticamente e in particolare esso aumenta durante le recessioni e diminuisce durante le fasi espansive. Questo rende più difficile interpretare il dato del deficit.

Interpretazione tradizionale del debito pubblico Secondo la teoria classica (lungo periodo), un aumento della spesa pubblica (G↑) aumenta il debito pubblico (in realtà aumenta il deficit che va ad aumentare il debito), quindi il risparmio diminuisce (S↓) e conseguentemente aumenta il tasso di interesse (r↑) e diminuiscono gli investimenti (I↓). Infine poiché diminuiscono gli investimenti diminuirà il reddito (per l’equazione di sopra). Secondo la teoria Keynesiana (breve periodo), una riduzione delle entrate (ad ex una riduzione delle tasse, T↓) aumentano il deficit, e nello stesso tempo aumentano investimenti e risparmio (I↑,S↑) e quindi aumenta il reddito (Y↑). Questo poi nel tempo dovrebbe portare ad un aumento dei prezzi (P↑) e quindi ad una diminuzione del reddito (Y↓) fino ad un livello naturale. Quindi, ci sarebbe un’espansione economica ma di breve periodo. In generale, si può dire che secondo l’impostazione tradizionale un aumento delle imposte diminuisce il reddito disponibile per i consumatori e quindi la spesa per i consumi.

Interpretazione ricardiana del debito pubblico Secondo la teoria ricardiana il reddito disponibile per i consumatori non sta davvero aumentando o diminuendo con una variazione delle imposte: cosa succede allora? 1) le imposte vengono ridotte 2) il debito pubblico aumenta perché non ci sono le imposte a finanziarlo. 3) nel breve periodo, il reddito dei consumatori cresce 4) prima o poi, lo Stato dovrà aumentare le imposte per finanziare il debito pubblico crescente, e quindi il reddito dei consumatori diminuisce di nuovo. Questa è all’origine della cosiddetta equivalenza ricardiana: cioè, finanziare la spesa pubblica con le imposte o col debito pubblico è equivalente. Infatti abbiamo che nel primo periodo la spesa è stata finanziata col debito pubblico, poi con l’aumento delle imposte con le imposte stesse. La conseguenza di questa affermazione è che secondo questa teoria quindi il reddito non aumenterebbe realmente con il taglio delle tasse, perché dopo sarebbe destinato a diminuire comunque, e quindi non varierebbero i consumi. Quindi la riduzione delle imposte non ha effetto se non è accompagnata da una politica di riduzione della spesa pubblica futura (che impedirebbe il riaumento delle tasse). L’equivalenza ricardiana tuttavia non funziona perfettamente nella realtà: lo possiamo vedere analizzando il caso negli USA del 1992 (esperimento di George Bush), in cui le imposte furono dilazionate di un anno (al 1993). Ora la teoria ricardiana afferma che i consumi non varino, quella tradizionale prevede invece un’espansione economica di breve periodo. Nello specifico, è accaduto che il 57% degli americani abbia risparmiato quei soldi per poter poi pagare l’anno dopo (teoria ricardiana), mentre il 43% ha speso quei soldi (teoria tradizionale). Si può comprendere quindi come la teoria ricardiana non abbia funzionato completamente, e questo perché: - gli operatori non sono tutti razionali - il debito sarà pagato dalle generazioni future e non esiste un altruismo intergenerazionale - esistono operatori già indebitati (ex uso quei soldi in più per pagare la rata del mutuo)

Altre interpretazioni del debito pubblico È bene quindi che la politica si concentri più sull’arrivare al pareggio di bilancio (per ridurre o annullare il debito pubblico) o diminuire le tasse ed aumentare la spesa pubblica (e il debito) per aumentare il PIL? Se da una parte la spesa pubblica ha effetti redistributivi, dall’altra l’aumentare del debito pubblico riduce il peso politico internazionale e può indurre a fughe di capitali per timore di default.

Il debito pubblico italiano Il rapporto debito-PIL dipende da: 1) il disavanzo primario (cioè la differenza negativa tra le entrate delle pubblica amministrazioni e la spesa pubblica, senza però considerare gli interessi). Il disavanzo primario è in poche parole il deficit e quindi va ad aumentare il debito pubblico. Negli ultimi anni esso è sempre positivo (e si parla quindi di avanzo primario) con l’eccezione del 2009. 2) l’andamento dei tassi di interesse. Essi misurano quanto costa allo stato il debito pubblico in termini di interesse (mentre il primo punto gli interessi non li considerava). 3) Il tasso di crescita del PIL in termini nominali e reali. Il periodo che va dal 1947 al 1971, cioè il periodo del boom economico italiano, è il periodo in cui il rapporto debito-PIL è stato il più basso della storia italiana ( 30%). Da quel momento ha iniziato a crescere fino a superare il 130%. L’Italia rappresenta un caso particolare poiché ogni fase di crescita del debito ha le sue cause specifiche: - dagli anni ‘60 agli anni ‘80 il debito pubblico era sostanzialmente formato dal disavanzo primario dello stato; infatti lo stato negli anni’60 aumentò la spesa pubblica con grandi riforme, ma l’aumento delle tasse avvenne solo nel 1974. - negli anni ‘80 il disavanzo è dimezzato ma il debito cresce per colpa della spesa per interessi; - negli anni ‘90 si inizia a registrare avanzo primario e la spesa per interessi diminuisce con l’entrata nell’euro; il rapporto debito-PIL comincia quindi a scendere, e continuerà a farlo fino al 2007. Nel 1997 l’Italia, per far parte dell’unione europea, doveva dimostrare di avere due caratteristiche principali: 1) rapporto deficit-PIL ≤ 3% 2) rapporto debito-PIL ≤ 60% L’Italia entrò ugualmente, anche se aveva un 2) intorno al 98%

Politiche per ridurre il debito pubblico In Europa, dove in tutti i paesi prevale una situazione di stagnazione e aumento del debito pubblico, due sono le politiche adottabili: 1) si agisce sul saldo primario riducendo la spesa pubblica e aumentando le entrate con le imposte; questa è la cosiddetta politica di austerity, che si basa sull’assunzione che tutte le altre variabili rimangano invece costanti (compreso il PIL). In realtà non è così, in quanto le politiche di austerità riducono il PIL, annullando quindi sia il risparmio di spesa pubblica sia le tasse più alte. Inoltre l’UE considera che un rapporto debito-PIL superiore al 90% sia motivo di instabilità. La politica europea ha seguito, con mediocri risultati, questo tipo di politica. 2) se il primo metodo consiste nel diminuire la spesa pubblica, il secondo metodo (politica Keynesiana) al contrario impone di aumentare la spesa pubblica, accettando quindi un rapporto debito-PIL elevato, perché se si aumenta la spesa pubblica si creano posti di lavoro e redditi, che saranno spesi per consumi, che aumenteranno gli investimenti delle imprese, che aumenterà la

produzione da parte delle imprese stesse e quindi il PIL. Questo tipo di strategia è quella seguita dagli USA nel New Deal e anche in tempi più recenti.

L’Italia e l’Eurozona - nel 1957 il trattato di Roma costituisce la CECA (comunità europea del carbone e dell’acciaio) - nel 1992 il trattato di Maastricht crea la BCE e stabilisce alcuni criteri di convergenza che i paesi che aspiravano ad entrare nell’UE dovevano rispettare; questi criteri erano: 1) la stabilità del tasso di cambio 2) la convergenza nei tassi di interesse di lungo periodo 3) la convergenza del tasso di inflazione 4) il rapporto deficit-Pil (≤3%) e il rapporto debito-PIL (≤60%) - nel 1997, gli 11 paesi che aderiscono all’euro sottoscrivono il patto di stabilità e crescita che impone delle regole a cui i paesi devono sottostare e le procedure da intraprendere se si abbia un deficit pubblico eccessivo; il Patto è stato soggetto a numerose critiche: 1) esso limita molto gli strumenti che i singoli Stati possono usare per far fronte ad un eccessivo deficit pubblico; 2) il debito pubblico serve a finanziare investimenti (nell’istruzione, ricerca, ecc) che il settore privato non intraprenderebbe o non può permettersi; è ragionevole che una regola che riduca il debito pubblico sia considerabile buona? Recentemente si è arrivati al cosiddetto Fiscal Compact, che è una nuova serie di regole per la permanenza nell’UE. Esso prevede: 1) che il pareggio di bilancio sia scritto in Costituzione; 2) si impone che nei 20 anni successivi il rapporto debito-PIL sia ridotto di 1/20 ogni anno fino al raggiungimento del 60% La critica contesta che queste regole non sostituiscono il patto di stabilità e crescita ma si aggiungono solamente, e inoltre una riduzione del rapporto avrebbe l’effetto contrario di aumentare il debito perché diminuirebbe l’avanzo primario. La proposta di Cottarelli consiste nel diminuire il debito pubblico tagliando la spesa pubblica e non la tassazione. LEZIONE 3

I dati della macroeconomia Il flusso circolare Assumiamo che una nazione sia composta da due soli gruppi: gli individui e le imprese. Essi sono collegati in modo duplice: da una parte gli individui offrono lavoro in cambio di un reddito, dall’altra gli individui comprano i beni prodotti dalle imprese stesse. Abbiamo quindi quattro variabili: il reddito e la spesa, che sono variabili nominali (si misurano in unità monetarie ex euro), e il lavoro e i beni che sono variabili reali. In questo schema semplificato, si ha che il reddito è uguale alla spesa, cioè quello che l’impresa rilascia sottoforma di salario lo ritrova sottoforma di ricavo per il prodotto che ha venduto; questo paesaggio,tuttavia,non tiene conto di un terzo elemento che è lo stato il quale si intromette tra questi due soggetti (attraverso ad ex le imposte).

Il Prodotto Interno Lordo (PIL) Possiamo dare diverse definizioni di PIL: 1) Dal lato della domanda: si può definire il PIL come il valore di mercato di tutti i beni e servizi FINALI prodotti nell’economia in un dato periodo di tempo (ex un anno solare). Contiamo solo i servizi finali, attenzione, e non quelli intermedi (ad ex in corso di lavorazione). Perché? Questo perché se contassimo anche gli intermedi li conteremmo due volte, una volta quando sono intermedi e una volta quando diventano beni finali 2) Dal lato della produzione: il PIL è il valore aggiunto aggregato di una economia in un dato periodo di tempo. Il valore aggiunto sarebbe quel plusvalore che ha il prodotto rispetto alla somma delle singole materie prime che lo compongono. 3) Dal lato del reddito: il PIL è la somma dei redditi in un’economia in un dato periodo di tempo. Questo concetto è equivalente a quello di prima perché il salario pagato dall’azienda coincide proprio col plusvalore che ha il prodotto finito rispetto alla somma dei beni intermedi che lo compongono. Le tre definizioni di PIL sono tra loro equivalenti. Il PIL è un prodotto INTERNO perché tiene conto dei beni (e servizi) prodotti sul territorio nazionale senza considerare la nazionalità dell’impresa produttrice; in questo differisce ad esempio dal PNL (Prodotto Nazionale Lordo) che è invece il valore di mercato dei beni prodotto da aziende italiane, anche se localizzate all’estero. Essi vanno considerati congiuntamente perché così si può capire quanta parte della produzione è situata all’estero e viceversa, quanta parte della produzione interna è dovuta ad aziende estere. Altri indicatori di cui tenere conto sono: 1) il Prodotto Nazionale Netto PNN=PNL-ammortamenti 2) il Reddito Nazionale=PNN- imposte indirette ecc. Il PIL infine è detto LORDO perché non tiene conto della perdita di utilità dei mezzi di produzione, cioè degli ammortamenti. Il PIL è misurato in unità monetarie, in quanto solo queste possono misurare attraverso la stessa unità di misura tutti i beni. NON rientrano nel calcolo del PIL: a) beni usati, perché è un trasferimento di qualcosa che è stato già conteggiato in precedenza b) beni intermedi (vedi prima) c) produzione domestica (ex faccio una torta) perché sarebbe difficile calcolarne il valore Rientrano nel calcolo del PIL: a) scorte di magazzino (di prodotti finiti si intende) b) servizi abitativi (non solo l’affitto, ma anche se hai una casa di proprietà l’utilità di quella casa ceduta quell’anno rientra nel calcolo) c) economia non osservata

Economia non oss...


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