Relazione Meriggio PDF

Title Relazione Meriggio
Author Valentina Orlandini
Course Didattica della letteratura italiana
Institution Università di Pisa
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Didattica della letteratura italiana a.a. 2019/2020 – Valentina Orlandini – Matricola 464194

Meriggio - Gabriele d’Annunzio 1. Meriggio in Alcyone “Ho passato questi giorni in una quiete profonda, disteso in una barca al sole. Tu non conosci questi luoghi: sono divini. La foce dell‟Arno ha una soavità così pura che non so paragonarle nessuna bocca di donna amata. Avevo bisogno di questo riposo, e di questo bagno nel silenzio delle cose naturali. Ora sto molto meglio. […] Vorrei rimanere qui, e cantare. Ho una volontà di cantare così veemente che i versi nascono spontanei dalla mia anima come le schiume dalle onde. In questi giorni, in fondo alla mia barca, ho composto alcune Laudi che sembrano veramente figlie delle acque e dei raggi, tutte penetrate di aria e di salsedine”.1

Così scriveva Gabriele d‟Annunzio a Giuseppe Treves, il suo editore triestino, il 7 luglio 1899, preannunciandogli il suo nuovo progetto poetico e tergiversando sul lavoro in prosa che invece il suo corrispondente si sarebbe aspettato di ricevere da lì a poco2. Le sensazioni provate in quell‟estate, trascorsa fra la campagna e il litorale della Toscana, furono la matrice dei componimenti contenuti in Alcyone. Alcyone è una raccolta poetica che fa parte di un progetto più ampio: quello delle Laudi del cielo, del mare della terra e degli eroi. Nell‟ideale di d‟Annunzio avrebbe dovuto racchiudere sette libri, ognuno recante il nome di una stella della costellazione delle Pleiadi, dei quali però, in definitiva, soltanto quattro trovarono compimento: Maya, Elettra e Alcyone nel 1903 (Alcyone uscì però con data 1904), Merope nel 1912 ed Asterope nel 1933. Dai luoghi e da i temi che d‟Annunzio raccontava a Treves nella sua corrispondenza si possono facilmente intuire riferimenti diretti a liriche scritte in quegli stessi giorni, come Bocca d’Arno, ma quelle sensazioni di profonda connessione con la natura e di entusiasmo per quei luoghi “divini” pervadono tutta la raccolta di Alcyone, e si possono ritrovare intatte anche in poesie come Meriggio, apoteosi del panismo d‟Annunziano, scritta fra il luglio e l‟agosto 1902, attingendo anche ai taccuini scritti proprio tre anni prima 3. Idealmente, infatti, l‟”estate poetica” di Alcyone è quella del 1889, ma le ultime poesie furono vergate soltanto nell‟autunno inoltrato del 1903, come puntualizza anche Pietro Gibellini definendo la raccolta come “quasidiario quasi-lirico di una quasi-estate”4. In Alcyone, infatti, per quanto sia presente una scansione ideale del tempo e il riferimento a luoghi veramente frequentati in quel determinato periodo, la precisa successione cronologica tipica del diario viene superata in virtù della ricerca di una struttura equilibrata e meticolosamente studiata , scandita da quattro ditirambi e pervasa di rimandi e parallelismi in una sorta di 1

Roncoroni, 1995, p. 19. La stesura del romanzo Il fuoco. 3 Chiari collegamenti con Meriggio si trovano nel taccuino n. 10: “L’Arno ha un dolce colore aurino, è calmo, quasi pareggia le rive […] I boschi di San Rossore densi, in fondo […] Ecco la foce coperta di ginepri bassi e magri […]Andando, uno spazio coperto di erbe e di canne e di ginepri […] Presso la riva, la sabbia è rigata dall’acqua e dal vento con ondulazioni leggere come quelle di certi palati d’animali […] Lungo la foce sono in ordine lungo le capanne dei pescatori con la rete pensile (bilancia) […] In fondo la linea dei boschi di San Rossore, quindi le montagne pisane, su cui si agglomerano nubi bianche, vaste greggi […] La Foce ha l’aspetto d’ un lago […] È d’un colore verde chiarissimo, increspato dal vento; e l’arena intorno è straordinariamente fine, segnata da linee chiare ondeggianti che sono le tracce dell’onde lievi […] Non v’è nell’acqua indizio della corrente. La foce si restringe in fondo, ove appaiono i boschi, le terre che il fiume irriga […] Rimane fuor d’acqua la foce degli staggi […] Sui Monti Pisani, su le Alpi Apuane, stanno vapori bianchi. Le vele bianche passano in alto mare. (Roncoroni, 1995, pp. 303, 304). 4 Gibellini, 2018, pp. 23 - 29. Gibellini corregge Sergio Solmi, che nel saggio L’”Alcyone” e noi aveva definito la raccolta come “diario lirico di un’estate marina” e si accoda a Contini che aveva invece dichiarato l’Alcyone “quasi un diario”. 2

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“autobiografismo metafisico”5. La mitizzazione della natura e l‟immergersi completamente in essa in maniera divina vanno infatti al di là di tempo e spazio reali. Nemmeno le figure mitiche che compaiono nei vari componimenti possono essere definite “reali”: la poesia di Alcyone è infatti fittamente intarsiata di tematiche di derivazione mitica, pastorale ed erotica e comprende metri e registri anche riconducibili alla tradizione epico-tragica e ditirambica, ben lontana dalla sola lirica del sentimento autobiografico in sé.

2. Meriggio: l’analisi Meriggio è caratterizzata da quattro strofe lunghe che si compongono di ventisette versi ciascuna e da una chiusa formata da un ottonario isolato. I versi sono liberi: quinari, senari, settenari, ottonari. Anche lo schema rimico è libero e variegato: rime alternate, rime identiche, rime al mezzo. Abbondano anche figure come assonanze, alliterazioni, enjambament, omoteleuti, anafore, che contribuiscono ad indirizzare il ritmo della poesia. Il componimento è inoltre ricco di parallelismi, essendo la prima strofa collegata alla seconda, mentre la terza collegata alla quarta; e presenta una struttura chiaramente scandita dal punto di vista tematico in due parti distinte. La prima parte della poesia assume una funzione esclusivamente descrittiva e introduttiva: d‟Annunzio, sdraiato sulla spiaggia alla foce dell‟Arno, nel caldo afoso del mezzogiorno, nell‟immobilità più assoluta del paesaggio intorno a sé e nel silenzio più totale osserva ciò che gli sta intorno a trecentosessanta gradi, donandoci un‟approfondita descrizione che abbonda di particolari geografici e toponomastici, quasi sconfinando in una ridondanza e una pesantezza che rispecchia no la situazione di immobilità e calura provate in quel momento. Nel golfo di La Spezia, a nord, il poeta arriva a scorgere l‟Isol a del Tino e Punta Corvo (“Pel chiaro / silenzio il Capo Corvo / l‟isola del Faro scorgo”) ; mentre, verso sud, incontrando prima una fila di barche a vela che immobile “biancheggia” verso Livorno, il suo sguardo si spinge fino alle sagome della Capraia e della Gorgona, rispettivamente di fronte a Piombino e Rosignano. Non manca, inoltre, nel nominarle, di tributare a Dante alludendo al canto XXXIII dell‟inferno, nel quale il “padre” della poesia italiana invoca le due isole invitandole a spingersi fino alla foce dell‟Arno ed ostruirla affinché Pisa, rea di aver affamato il rispettabile Conte Ugolino fino alla morte, potesse essere distrutta dallo straripare delle acque del fiume6. Più vicini, sono invece i boschi di San Rossore, il litorale del Gombo e la foce del Serchio ad attirare l‟attenzione di d‟Annunzio, così come, a nord-est, le colline pisane e le Alpi Apuane. Tutta la descrizione è disseminata di aggettivi e riferimenti attinti dai campi semantici dell‟immobilità e del silenzio, le pause aiutano a conferire un ritmo lento e pedante: “grava la bonaccia. Non bava / di vento intorno / alita. Non trema canna / su la solitaria spiaggia”, “Non suona / voce, se ascolto.”, “Riga di vele in panna”, “la foce è come salso / stagno”, “si tace”, “Quasi letèa, / obliviosa, eguale, / segno non mostra / di corrente, non ruga / d‟aura”, “l‟oblio silente; e le canne / non han sussurri”, “Dormono i Monti Pisani”. Fra le prime due strofe, inoltre, “si hanno relazioni verbali e di situazione” 7: i versi di apertura “sul Mare etrusco / pallido verdicante / come il dissepolto / bronzo dagli ipogei” sono ripresi al v. 34 nella seconda strofa con “Come il bronzo sepolcrale / pallida verdica in pace / quella che sorridea”. Ancora, il v. 6 della prima strofa “Non bava / di vento intorno / alita” trova corrispondenza in “non ruga / d‟aura” al v. 40, anche nella struttura con enjambament. “Non trema canna / su la solitaria / spiaggia”, al v.8, ha un parallelo alla seconda strofa al v. 45 “e le canne / non han sussurri”. Infine, al terzultimo verso di ognuna delle due strofe, sono citate delle alture, le Alpi Apuane nella prima e le più tondeggianti colline pisane nella seconda. La poesia entra poi nel vivo nella seconda parte, nella quale si assiste a una vera e propria metamorfosi incalzante del poeta, che si immerge e si immedesima a tal punto nella natura da fondersi con essa 5

Ivi, p.26. “Ahi Pisa, vituperio de le genti / del bel paese là dove ‘l sì suona, / poi che i vicini a te punir son lenti, / muovesi la Capraia e la Gorgona, / e faccian siepe ad Arno in su la foce, / sì ch’elli annieghi in te ogne persona!” (Inf, XXXIII, vv. 79 – 84). 7 Di Benedetto, 1992, p. 410. 6

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nell‟immobilità e nel caldo dell‟ora pomeridiana del Dio Pan, fino a diventare egli stesso natura, a perdere la propria identità, mutare nome in “Meriggio” e vivere immanentemente e divinamente in ogni cosa. La metamorfosi avviene in maniera graduale, in un crescente climax di eventi e di figure: inizialmente il poeta avverte soltanto il peso dell‟estate gravare su di sé come se fosse un pomo, un dono soltanto a lui destinato “L‟Estate si matura / sul mio capo come un pomo / che promesso mi sia, / che cogliere io debba / con la mia mano, / che suggere io debba / con le mie labbra solo”. Il fatto che egli solo si senta destinato a cogliere quel pomo fa pensare ad un‟allusione al superomismo d‟Annunziano, di uomo-artista che si eleva rispetto ai comuni mortali per vivere esperienze straordinarie, mistico-divine, come di fatto avviene poi nei versi successivi. Il poeta inizia infatti a distaccarsi gradualmente dal mondo antropico, che si annulla totalmente da quel momento in poi, e a perdere la propria identità: “Perduta è ogni traccia / dell‟uomo. Voce non suona, / se ascolto. Ogni duolo / umano m‟abbandona. / Non ho più nome”. La terza strofa termina con una serie di similitudini, o meglio, di simmetrie analogiche8, che danno inizio alla metamorfosi panica vera e propria: “E sento che il mio volto / s‟indora nell‟oro / meridiano, / e che la mia bionda / barba riluce / come la paglia marina; / sento che il lido rigato / con sì delicato / lavoro dall‟onda / e dal vento è come / il mio palato, è come / il cavo della mia mano / ove il tatto s‟affina”. Anche la percezione del corpo di d‟Annunzio comincia poi a scemare, all‟inizio della quarta ed ultima strofa: il peso del suo corpo crea un‟impronta nella sabbia, che viene però cancellata dall‟azione dell‟onda marina. Le similitudini della precedente strofa diventano metafore e il poeta non è più come gli elementi naturali citati ma è egli stesso quegli elementi e in quegli elementi, e quegli elementi sono in lui, parti del suo corpo: “e il fiume è la mia vena, / il monte è la mia fronte, / la selva è la mia pube, / la nube è il mio sudore”. E ancora: “E io sono nel fiore / della stiancia, nella scaglia / della pina, nella bacca / del ginepro; io son nel fuco, / nella paglia marina, / in ogni cosa esigua, / in ogni cosa immane, / nella sabbia contigua, / nelle vette lontane. Il poeta, al v. 99 ribadisce il concetto espresso al precedente v.68, “E non ho più nome”; ed è in questo momento che acquista rilievo, per contrasto, tutta la prima parte della poesia: “E l‟alpi, e l‟isole, e i golfi / e i capi e i fari e i boschi / e le foci ch‟io nomai / non han più l‟usato nome che suona in labbra umane”. Tutto ciò che diligentemente d‟Annunzio aveva nominato con dovizia di particolari all‟inizio del componimento perde la sua essenza, la sua importanza. Egli stesso si distacca dal mondo umano e perde il proprio nome, mutandolo in “Meriggio”: “Non ho più nome né sorte / tra gli uomini; ma il mio nome / è Meriggio. Gli ultimi due versi della quarta strofa “In tutto io vivo / tacito come la Morte” sono stati interpretati per lo più, anche da Gibellini e Roncoroni, semplicemente (e, forse, semplicisticamente) come “un compiaciuto gioco di antitesi”9 ma c‟è anche, nella critica, chi azzarda un‟interpretazione più ponderata: Di Benedetto ricollega il verso al “paradosso del morire a sé stessi […] per attingere a una condizione non più umana” 10, e anche Sant‟Agata, Carotti, Casadei e Tavoni sembrano posizionarsi più su questa linea, indicando sì l‟antitesi ma affermando anche che “la perdita dell‟individualità e la dimensione panica sono una sintesi di vita e morte, la condizione primitiva ed eterna della divinità, fuori del tempo, in eterno oblio” 11. D‟altronde, gli stessi autori osservano che “la conclusione di Alcyone prospetta la fine di un ciclo vitale, cioè l‟autunno dopo dopo l‟estate” 12 e riconducono la morte al concetto di eterno ritorno dell‟ eguale di Nietzsche “per cui il destino dell‟uomopoeta è quello di “tramontare” per poi risorgere con una nuova vitalità” 13. Effettivamente, la chiusa “E la mia vita è divina” potrebbe apparire in linea con queste ultime interpretazioni.

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Roncoroni, 1995, p. 303 Roncoroni, 1995, p. 309 e Gibellini, 2018, p. 606. 10 Di Benedetto, 1992, p. 417. 11 Sant’Agata, 2008, p. 308. 12 Ivi, p. 43. 13 Ibidem. 9

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3. Ipertestualità e tematiche: la metamorfosi panica e il meriggio Il fulcro poetico di Meriggio è senza dubbio la metamorfosi panica che porta d‟Annunzio ad un‟immanenza divina con la natura in un rapporto uno ad uno, potremmo dire “nudo e crudo”, senza riferimenti mitologici, edonistici, erotici, senza presenze femminili né umane14. Il tema panico, che ha forse in Meriggio la sua apoteosi, appare anche in altri componimenti all‟interno della raccolta: non per altro Alcyone è il libro, all‟interno delle Laudi, che ha l‟intento di celebrare la natura 15 e che attribuisce ad essa caratteristiche divine. Ne La pioggia nel pineto è presente un altro rilevante esempio di metamorfosi panica: in questo caso non è il caldo del meriggio ad attivarla, bensì una pioggia estiva che tutto ricopre, un‟”argentea pioggia / che monda ” e il poeta non è da solo, ma condivide l‟esperienza con la “creatura terrestre / che ha (i) nome / Ermione”. Sono ben riconoscibili i tratti linguistici utilizzati da d‟Annunzio anche per la metamorfosi osservata in Meriggio, con le similitudini fra le parti del corpo e gli elementi naturali: ”E tutta la vita è in noi fresca / aulente, / il cuor nel petto è come pesca / intatta, / tra le pàlpebre gli occhi / son come polle tra l‟erbe, / i denti negli alveoli / son come mandorle acerbe”. Distaccandoci dal corpus d‟annunziano, Di Benedetto osserva che possiamo leggere lo stesso modus operandi semantico utilizzato da d‟Annunzio per la metamorfosi panica in Meriggio e ne La pioggia nel pineto in Gialâl ad-Dîn Rȗmî, poeta e mistico persiano del XIII secolo, che scrive16: “Io sono il granello di polvere nel sole, io sono il globo solare.”; “Io sono il bagliore dell‟alba; io sono l‟alito della sera. / Io sono il mormorio del bosco, la massa ondeggiante del mare”. Gialâl ad-Dîn Rȗmî, però, considera anche la dimensione antropica, che in d‟Annunzio è invece completamente assente: “Io sono l‟albero, il timone, il timoniere, la nave. / Io sono lo scoglio di corallo dove essa naufraga ”; “Io sono il soffio del flauto, io sono lo spirito dell‟uomo, / sono la scintilla sulla pietra, il bagliore dell‟oro sul metallo”. Un‟altra tematica fondamentale presente nella poesia analizzata, strettamente riconducibile al panismo, è riscontrabile nel nome stesso del componimento, Meriggio. Il meriggio è infatti l‟ora panica per eccellenza, quella in cui il Dio Pan effettua le sue apparizioni: non è un caso che proprio in questo momento della giornata ha inizio la metamorfosi del poeta, e che d‟Annunzio diventi egli stesso Meriggio. In Alcyone il meriggio è citato nel primo verso de La Spica: “Laudata sia la spica nel meriggio! / Ella s‟inclina al sole che la cuoce” ed è, nella forma A mezzodì, il titolo di uno dei madrigali dell‟estate e rappresenta il momento dell‟unione amorosa con una ninfa, creatura quindi divina:“ A mezzodì scopersi fra le canne / del Motrone argiglioso l‟aspra ninfa / nericiglia, sorella di Siringa ”. Anche nel resto della produzione d‟annunziana l‟ora del meriggio ha un ruolo di riguardo: già in Primo Vere¸ esordio poetico di d‟Annunzio del 1879, si può leggere nel componimento Lucertole: “Ricordi? Fiammeggiava il meriggio di giugno maturo”. In Canto Novo (1882), nel libr o VII, troviamo: “Sta il gran meriggio su questa di flutti e di piante / verde-azzurrina conca solitaria ”; ed ancora, in Elegie Romane (1892), troviamo una poesia intitolata Il meriggio, anche se reca un significato totalmente opposto a quello visto in Alcyone: “Era un silenzio orrendo, lugùbre: il più cupo che in terra / sia stato mai. Le tombe tutte pareano aperte”. Lo stesso De Benedetti, infatti, evidenzia due “immagini” del meriggio in d‟Annunzio, una con accezione positiva e superomistica, una con accezione negativa 17. Ancora in Canto Novo troviamo un “mezzogiorno” di uomini “curvi [...] / a sudar sangue, a farsi cuocere / il cranio da „l sole spietato, / senza una sola gocciola d‟acqua, / senza una mica di pane!”. 14

Roncoroni, 1995, p.300. Alcyone = laude del cielo e della terra (=della natura); Maia = laude del mare; Elettra = laude degli eroi in senso lato; Merope e Asterope = laude degli eroi in senso stretto. Gibellini, 2008, pp. 19, 20 16 Di Benedetto, 1992, p.414. 17 Ibidem. 15

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Anche per questa tematica d ‟Annunzio potrebbe essere in linea con l‟opera nietzschiana, seppure, ancora una volta, con accezione differente: per il filosofo tedesco il meriggio rappresenta il momento di transizione per eccellenza, il punto ideale in cui l‟uomo diventa superuomo, e non uno stato atemporale di estasi panica 18. È pur vero che, per d‟Annunzio, anche l‟immanenza con la natura può essere letta come una manifestazione del superuomo, che di fatto, come alla fine della poesia Meriggio, diventa divino. A proposito del tema meridiano, dando infine uno sguardo ai contemporanei di d‟Annunzio possiamo evidenziare il componimento carducciano Davanti S. Guido, che, oltre a riportare il sintagma “a mezzo il giorno” identico a quello presente in Meriggio, vede il mezzodì come orario dell‟apparizione del dio Pan e delle ninfe, orario in cui Pan “Il dissidio, o mortal, de le tue cure / Ne la diva armonia sommergerà ”. D‟altronde la figura di Pan era cara a Carducci, che nel IV dei sonetti dedicati a Nicola Pisano era arrivato ad esclamare, in linea col pensiero d ‟Annunziano: “Pan è risorto!”. Per Pascoli, invece, il meriggio ha un‟accezione più dimessa, connessa ad un concetto di ozio che può in ogni caso trovare parallelismi con la poesia del Vate. In Dall’argine scrive: Posa il meriggio su la prateria. / Non ala orma ombra nell‟azzurro e verde. / Un fumo al sole biancica; via via fila e si perde”. Sia nell‟apertura del verso con il sintagma “Non” che nel verbo “biancica ” troviamo un lessico assimilabile alla poesia d‟annunziana, nella quale inoltre, a ben pensarci, d‟Annunzio si trovava ad oziare sulla spiaggia. Infine Leopardi, due anni prima di d ‟Annunzio, con similarità di tema e lessico, in Vita solitaria, scrive: “Ivi, quando il meriggio in ciel si volve, / La sua tranquilla imago il Sol dipinge, / Ed erba o foglia non si crolla al vento, / E non onda incresparsi, e non cicala / Strider, né batter penna augello in ramo, / Né farfalla ronzar, né voce o moto / Da presso né da lunge odi né vedi. / Tien quelle rive altissima quiete; / Ond ‟io quasi me stesso e il mondo obblio / Sedendo immoto; e già mi par che sciolte / Giaccian le membra mie, né spirto o senso / Più le commova, e lor quiete antica /Co‟ silenzi del loco si confonda.

4. Bibliografia Di Benedetto Arnaldo (1992), Su e intorno a una lirica dell‟”Alcione”: “Meri...


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