Vita sociale e mentalità religiosa in Basilicata PDF

Title Vita sociale e mentalità religiosa in Basilicata
Author Pia Tartaglione
Course Scienze della formazione primaria
Institution Università degli Studi di Salerno
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Tale testo abbraccia il periodo della Riforma Cattolica, della Riforma protestante, del concilio di Trento e della Controriforma, ovvero dell’età confessionale. CAPITOLO PRIMO. Vita sociale e mentalità religiosa nella Basilicata moderna (secoli XVI-XVII). Tra tutte le regioni, non solo del Mezzogiorno, ma dell’Italia intera, la Basilicata è con ogni probabilità la più nota grazie al notevole successo, in patria e all’estero, del libro “Cristo si è fermato ad Eboli” , edito per la prima volta nel 1945. L’autore di tale testo, Carlo Levi, è un medico torinese di origine ebraica, condannato al confino (esilio) in terra lucana per la sua attività di antifascista. Il periodo trattato coincide con la metà degli anni 30 e oltre a trattare della vicenda personale dell’autore, tema fondamentale è la scoperta della civiltà contadina e di un mondo radicalmente opposto alla civiltà industriale ovvero al mondo delle macchine, di cui Torino, almeno in Italia, ne era l’emblema. Agli occhi di Levi, il mondo rurale lucano è apparso così come dovette apparire l’antica città di Pompei, rimasta sepolta per circa duemila anni, agli archeologici che operarono i primi scavi: un mondo cristallizzato dove il tempo si è fermato per sempre, in cui domina incontrastato il silenzio e incombe ossessiva la presenza della morte. Lo stesso Levi, infatti, parla di “Città immobile”, estranea del tutto ai grandi processi storici e chiusa alla modernità. Il messaggio di tale autore è dunque sintetizzato già nel titolo del libro: quella che si estende da Eboli, cittadina situata a sud di Salerno, in giù, verso la Lucania, è una terra abbandonata da Dio, senza tempo e senza storia: “Cristo non è mai arrivato qui, nè vi è arrivato il tempo, nè l’anima individuale, nè il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia” ; dovremmo concludere che quella rurale è una civiltà prelogica, prereligiosa e preistorica. Anche l’etno-antropologo Ernesto de Martino, nella sua fondamentale opera “Sud e Magia”, fa esplicito ricorso all’espressione non storia, al fine di mettere in evidenza “il contrasto tra illuminismo anglo-Francese e la non-storia del Regno di Napoli”. In verità, l’interpretazione negativa della storia del Mezzogiorno, avanzata da Levi, è condivisa da tutti quegli intellettuali e studiosi che hanno una concezione progressista della storia, intesa come epifania della Ragione assoluta. In ogni caso, Levi, proprio per la vasta diffusione che ha avuto il suo romanzo autobiografico, ha la responsabilità si aver contribuito a divulgare l’immagine di un Mezzogiorno eternamente immobile, depresso sul piano economico e di conseguenza anche su quello culturale. Date certe premesse scientifiche, era quasi inevitabile che il Mezzogiorno finisse, come nota Giuseppe Galasso, per configurarsi come fanalino di coda del grande corpo contentinetale. La domanda che dobbiamo porci è però quella che intende indagare se possa essere possibile una lettura diversa da quella da Levi oppure se Cristo si è veramente fermato ad Eboli, rassegnandoci a considerare il Mezzogiorno come luogo canonico dell’arretratezza e altra-Europa. Da notare però, che quando si affrontano i temi della mentalità religiosa, del folklore, della religione, della cultura e delle tradizioni popolari nell’Europa moderna, il riferimento a pratiche magiche e superstiziose è inevitabile, ma è bene sottolineare che tali pratiche non sono solo un patrimonio esclusivo dell’Europa meridionale bensì di tutta l’Europa!

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Allora come diretta conseguenza, dovremo forse applicare le categorie dell’arretratezza, del sottosviluppo e della subalternità all’interno continente europeo? Preme subito rilevare che ,ad esempio, la caccia alle streghe i n età moderna è stata soprattutto un fenomeno centro-europeo e nord-europeo. Lo scopo dunque è quello di rompere uno schema ideologico, che finora ha offerto un’immagine distorta e stereotipata della realtà: si può affermare senza timore che Cristo al Sud ci è arrivato eccome! Testimonianza ne sono la storia della pietà, delle santità meridionali, i numerosissimi santuari, conventi, monasteri, icone; di fatti Giuseppe De Rosa si chiede perché si debba sempre parlare tanto di pratica magica e di sincretismi e troppo poco di quella vitalità religiosa (che forse solo il termine pietà d eluchiano riesce ad esprimere). Ma qual era la vita religiosa nelle campagne lucane tra XVI e XVII? Le informazioni che in proposito ci forniscono i vescovi negli statuti sinodali1, o ltre che numerose, sono anche estremamente preziose, in quanto da tali documenti emergono alcuni aspetti ( credenze e pratiche magiche, costumi etnografici, tradizioni pagane) che per taluni studiosi rientrano tout court nel folklore, ma che in realtà se interpretati correttamente racchiudono tesori di spiritualità. Ritornando alle fonti sinodali, non tutte le costituzioni sono uguali, nonostante grosso modo trattino tutte degli stessi argomenti che spaziano dall’istruzione religiosa all’osservanza delle feste, dalla magia alle superstizioni popolari. Lo spessore qualitativo e quantitativo dipende da vari fattori e dalle personalità dei vari vescovi in quanto alcuni erano “burocrati” e scrivevano solo il minimo indispensabile, mentre altri, ansiosi di compiere la missione loro affidata, vedevano un’occasione unica ed irripetibile per realizzare il loro progetto pastorale. In realtà dobbiamo però definire il sinodo “impastorale”, nella misura in cui veniva a smuovere le acque stagnanti di vita sociale e religiosa della diocesi; d’altro canto clero e fedeli, poco propensi ad essere disturbati nelle loro manovre, costituivano una coalizione antisinodale , e addirittura molti per evitare conflitti e polemiche, rinunciavano a celebrarlo o si limitavano a trattare argomenti essenziali o già trattati da predecessori. In ogni modo, per quanto riguarda la Basilicata, di assoluto rilievo sono i sinodi di Venosa del 1614, di Policastro del 1632 e di Melfi e Rapolla del 1635, celebrati rispettivamente dai vescovi Andrea Perbenedetti, Urbano  Feliceo e Diodato  Scaglia. Per quanto riguarda le costituzioni sinodali di Perbenetti, sono un vero e proprio monumento vantando più di 1000 pagine, quelli di Feliceo 203 e quelle di Scaglia 269 che rappresentano una miniera per l’antropologo in quanto costituiscono un minicatalogo etnografico. È bene però ricordare, che nelle diocesi di Melfi e Rapolla erano presenti due gruppi etnici, che con il loro patrimonio di tradizioni e di cultura, arricchivano in maniera considerevole il quadro complessivo della vita sociale e della mentalità religiosa nella Basilicata moderna: si tratta della comunità albanese di rito greco e degli zingari.  Addirittura il vescovo di Melfi dedica alla riforma del rito greco un intero capitolo delle sue costituzioni sinodali, a dimostrazione di un interesse tutt’altro che burocratico. Scaglia, infatti, non si preoccupa solo di esigere che i sacramenti siano impartiti secondo il rito romano, ma esamina accuratamente anche le pratiche magiche e superstiziosi di tali gruppi sociali con l’intento ovvio di combatterle e sradicarle: ad esempio per quanto riguarda la pratica dell’estrema unzione, poco praticata dai greco-albanesi, si invitano i sacerdoti ad impartirla o ancora si ordina di 1

Il Sinodo [dal greco syn (insieme)+ odós (camminare)] è la riunione dei rappresentanti delle diverse chiese locali che ha come obiettivo la ricerca di un consenso attorno ad un argomento riguardante la fede o decisioni di natura pastorale.

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celebrare i matrimoni secondo le norme tridentine, per evitare quelli che la Chiesa cattolica di veri e propri divorzi; ancora Scaglia ordina ai sacerdoti greci di pregare durante la messa per il sommo pontefice e per il vescovo della diocesi di appartenenza oppure condanna le più svariate usanze come quelle di rendere omaggio alla luna nuova o la festa dell’Arciporco (corrispondente al nostro Carnevale). Preme rilevare, come ricorda Jean Delumeau sulla scorta delle predicazioni del padre Michel Le Nobletz, che tali culti non sono una prerogativa esclusiva delle popolazioni orientali, ma anche diffusi nella Bassa Bretagna dal 1610, dove taluni abitanti della regione rivolgevano preghiere alla luna. Ritornando al sinodo di Melfi e Rapolla, preme sottolineare che la preoccupazione di Scaglia, già manifestata nei confronti della comunità greco-albanese, si accentua nei confronti della comunità zigana (degli zingari). Questi ultimi infatti, si accoppiano e procreano senza essere sposati, conducono una vita sregolata e da vagabondi e dunque costituiscono una seria minaccia per la religione cattolica, in quanto professano una fede scismatica. Il vescovo melfitano invita perciò i parroci a vigilare molto attentamente per evitare di unire in matrimonio persone già sposate e per impedire che gli zingari battezzino i propri figli immergendoli per tre volte nelle acque fluviali. In ogni modo il discorso sulle superstizioni popolari di cui sono intessute la vita sociale e la mentalità religiosa delle campagne lucane dei secoli XVI-XVII, non si esaurisce di certo con le due minoranze etniche degli albanesi e degli zingari. Scaglia, in particolare, parla degli abusi puu frequentemente commessi dai fedeli della sua diocesi come le superstizioni nei confronti dei sacramenti: è il caso della festa di San Giovanni battista, durante la quale le ragazze cantavano le “amatorias cantilenas” cioè delle ballate, e mostravano chiedendo offerte, un vaso ornato di fiori, in cui dicevano si conservasse la testa del Battista;un’altra pratica era quella di facilitare il trapasso dei moribondi aprendo le finestre o mettendo qualche animale (cucciolo o gatto) sotto il letto dell’agonizzante. Con riferimento al matrimonio, Perbenedetti, condanna come barbara l ’usanza di condurre le spose in chiesa al suono di strumenti musicali e addirittura, nella diocesi di Venosa, si faceva pagare una sorta di pedaggio a chi infrangeva la regola dell’endogamia e in occasione di seconde nozze tra vedovi si inscenava lo charivari2. La presenza di tale pratica nell’Italia medievale e moderna è attestata soprattutto dai documenti sinodali, ma non mancano le pagine come quelle scritte dal “proletario semplice” Reclus Malaguti, che racconta in prima persona che una sera di novembre del 1925, abbia sentito in lontananza dei suoni e dopo aver chiesto alla zia e alla nonna se ne sapessero qualcosa, le due gli spiegarono che doveva trattarsi della cioccona, fatta per beffeggiare il matrimonio avvenuto tra due vedovi del luogo. Dopo essersi recato sul posto, vide un centinaio di persone di ogni età picchiare rumorosamente barattoli e schiamazzare davanti alla casa dove due novelli sposi si erano tappati. Malaguti, però ci tiene a rilevare che quel primitivo costume non era uguale per tutti: era riservato esclusivamente alle classi povere in quanto un vedovo benestante poteva risposarsi liberamente senza che nessuno osasse turbare la sua luna di miele. Per quanto riguarda le usanze ancora connesse al matrimonio, è da ricordare che, nel territorio diocesano di Melfi Rapolla, le vecchiette erano solite sussurrare all’orecchio degli sposi delle “sacreta colloquia” (conversazioni private), per neutralizzare gli effetti di un’eventuale legatura .

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Protesta plateale contro individui che infrangevano la morale comune, praticata fino al XX secolo.

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Eloise Mozzani, che ha redatto una sorta di dizionario delle superstizioni, ci da la seguente definizione del fenomeno: La legatura,processo noto già agli antichi (il faraone Amasis ne era stato una vittima), è usato per seminare discordia in una coppia, causando in particolare l'impotenza del marito fino a quando non sarà sciolto quel nodo. Questa maledizione consiste nel realizzare i nodi su un laccio,mentre la coppia entra in chiesa per sposarsi (originariamente, si annodava il cordonicino dei pantaloni, che si chiama aiguillette). Questa operazione magica è stata a lungo procrastinata ed era ancora presente all'inizio del secolo in alcune regioni. L'uomo poteva proteggersi solo urinando attraverso la sua fede prima del matrimonio. 3 In ogni modo, si credeva che la capacità di saper fare la legatura, fosse una prerogativa della strega e addirittura i vescovi Lucani mostrano di credere all’esistenza di queste ultime e al loro potere: Perbenedetti accenna anche al Sabba4 e scrive che “il suono delle campane ha virtù di dissipare le magarie” . Triste è dunque notare, che i vescovi Lucani hanno dimostrato una robusta diffidenza nei confronti delle donne: Sigismondo Saraceno, vescovo di Matera, nel sinodo del 1567 arriva dire che la donna è il principio di tutti mali e tale giudizio negativo dell’episcopato rientra certamente nella cultura misogina del tempo. In ogni modo, cercando di chiudere il cerchio, dobbiamo certamente notare che nonostante la lunga teoria di superstizioni citate da autori di Spagna, Inghilterra e Francia, nessuna di queste terre è mai diventata una terra negata alla ragione come è successo con il Mezzogiorno italiano. Perché?

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Traduzione dal francese fatta da Google traduttore. Convengo di streghe alla presenza del demonio.

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CHIESA ED ETNIE NELLA BASILICATA POST-TRIDENTINA: ALBANESI E ZINGARI TRA TOLLERANZA E RIFORMA RELIOGOSA.

Secondo Giacomo Racioppi, insigne storico dei popoli della Lucania e della Basilicata, “gli ultimi rivoli, che vennero a mescolarsi alla corrente etnica della popolazione basilicatese sono gli albanesi”. La maggior parte di essi si insediò a Barile; altri, meno numerosi, si installarono a Brindisi di Montagna e a San Chirico Nuovo; altri ancora, infine , “fondarono San Costantino, oggi detto Albanese, e Casalnuovo, che oggi ha mutato nome in San Paolo Albanese” Le prime colonie albanesi , giunte nel Regno di Napoli, sarebbero state “tre compagnie di uomini d’armi raccolti da un Demetrio Reres”, assoldati da Alfonso I per combattere i nemici delle Calabrie.” La prima ondata di immigrati albanesi, sempre secondo lo storico lucano, venne a stabilirsi a Barile, casale vicino alla cittadina di Melfi, il quale sarebbe stato uno dei primi luoghi del Mezzogiorno a ospitare gli albanesi fuggiti dopo la presa di Scutari, avvenuta nel 1964 a opera dei turchi. Successivamente, verso il 1534 abbiamo la seconda ondata, quando anche Corone della Morea, cadde in mano turca e dunque altri albanesi vennero a ingrandire la colonia di Barile e a popolare San Chirico Nuovo, Ginestra e Maschito. La terza ed ultima ondata di immigrati albanesi, provenienti dalla città di Maina, venne a stabilirsi a Barile e Maschito, verso il 1647. Per quanto riguarda la prima ondata, Angelo Bozza, autore di una storia di Barile e dei paesi circonvicini, apparsa nel 1889 sostiene che quando gli ultimi abitanti di Scutari furono costretti ad abbandonare la città, si stabilirono in varie località dell’Italia Meridionale e “una parte di essi ampliarono i piccoli casali di Rione e Barile, ed edificarono poche migliaia lontano Ginestra e Maschito” Per quanto riguarda la seconda, d’altra parte, essendo la zona di proprietà della mensa vescovile di Rapolla, tanto gli Scuteriani quanto i Coronei chiesero il permesso di costruire abitazioni all’ordinario diocesano, che, nel 1534, che era Giannotto Pucci, “ e l’ottennero benignamente per l’anno benignamente per l’annuo canone di ducati 8 e grana 50 (lire 36.10)”. Sennonché, circa 40 anni più tardi, entrarono in contrasto col vescovo di Melfi e Rapolla, Gaspare Cenci, il quale, allegando come motivazione la mancanza dell’assenso papale al contratto, non lo ritenne valido dal punto di vista legale e ne approfittò per far crescere le pretese della mensa. Alla fine, essendosi le parti accordate “per comune vantaggio, si obbligarono gli albanesi al pagamento annuale di ducati 15 ( 63.75 lire ) sulla estensio di circa undici Ruggi. Dunque i primi contrasti tra comunità greco-albanese di Barile e ordinario diocesano latino non sono di natura teologica e religiosa, ma esclusivamente economica: i greco-albanesi, infatti, “non coltivavano più i terreni della mensa ed inoltre i proventi ed i guadagno della mensa episcopale erano diminuiti”.

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Come mai gli immigrati albanesi avevano smesso di coltivare della mensa vescovile di Melfi e Rapolla? La verità é che le genti provenienti dell’Albania avevano dimestichezza e confidenza più con la lancia e con la spada che con la vanga e con il vomere, avendo una vocazione militare piuttosto che contadina. Lo storico francese Fernand Braudel ha scritto che meriterebbe una lunga ricerca, da sola, la storia degli albanesi sono presenti a Cipro, a Venezia, a Mantova, a Roma, a Napoli, in Sicilia e a Madrid, “arroganti, imperiosi, sempre pronti a menar le mani”, che in pratica parteggiano per chi li fa vincere e se occorre “prendendo il fucile per pascià e la sciabola per visir” Prima ancora, Francesco Tajani aveva affermato che “gli albanesi dall’istinto di guerra correvano dovunque uno squillo di tromba si udiva”. Sotto il regno di Filippo IV venne a stabilirsi in Barile la terza ed ultima colonia di Greci-Albanesi. Giunti nel Mezzogiorno, così come avevano fatto i coloni che li avevano preceduti “si collocarono al sommo della collina, più meridionale, divisa dalla prima pel corso del ruscello”. I Mainotti venivano anche chiamati “pagliari” e/o “camiciotti”: pagliari, perchè appena arrivati, si costruirono come ricovero capanne di paglia e di stoppie, “finchè non poterono costruire delle case più comode e solide, e quel rione da essi occupato serba il ricordo di tal circostanza, col nome di Pagliari a ncora oggidì” , camiciotti, perché indossavano una bluse o camicia nera sull’abito più attillato. Si è insistito particolarmente sulle colonie greco-albanesi insediatesi nella zona del Vulture, perché è proprio la comunità albanese di rito greco di Barile a costituire il maggiore ostacolo e ad opporre la più strenua resistenza al tentativo di latinizzazione perseguito con forza e determinazione dal vescovo di Melfi e Rapolla, il domenicano Diodato Scaglia, nel corso del XVII secolo. Le vicende storiche narrate da Raffaele Nigro nel romanzo La  Baronessa dell’Olivento h anno per protagonisti i due fratelli Brentano, Stanislao e Vlaika, di origini albanesi, governatori del castello di Lagopesole costruito da Federico II di Svevia. Ambientato tra il 1440 e il 1494 in Schiavonia, Albania, Campania, Basilicata e Puglia, questo romanzo ariostesco rievoca, tra l’altro, lo scontro tra cristiani e turchi e il conseguente insediamento degli albanesi nel Mezzogiorno. Ma lo spazio geo-antropologico privilegiato, richiamato fin dal titolo, è proprio quello della zona del Vulture:l’ Olivento é, infatti, “un piccolo fiume, che ha le sue scaturigini da Maschito e Ripacandida, e ricevendo le acque di Venosa e va a scaricarsi nell’Ofanto”. Quando affermiamo che la zona del Vulture è stata, in un certo senso, privilegiata dagli studiosi, non intendiamo affatto dire che le altre zone, che pure sono state investite dall’ immigrazione albanese, come la valle del Sarmento, ai confini con la Calabria, sono state sic et simpliciter dimenticate o trascurate. Ma come mai gli albanesi si installarono proprio in queste aree? Certamente è difficile, in assenza di documentazione specifica, dare una risposta sicura, e tuttavia qualche ipotesi è possibile formularla.Orbene, è stata sottolineata come assolutamente evidente l’utilizzazione da parte dei feudatari dei profughi albanesi “per popolare o ripopolare zone del tutto o parzialmente disabitate”. In realtà, la Basilicata non è la Puglia, che, trovandosi a un tiro di schioppo dall’ Albania, rappresentava e rappresenta ancora oggi il classico sogno a portata di mano. E allora perchè gli Scutari, di Corone della Morea e di Maina si spinsero fin nel cuore del Mezzogiorno, senza fermarsi in Puglia? Sarebbe da escludere la motivazione economica, visto e considerato che, nell’ultimo quarto del XV secolo, la Basilicata, come la Calabria, per tutta una serie di motivi - epidemie, calamità naturali, lotte

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politiche, anarchia della feudalità, etc- mostrava i segni inequivocabili della “decadenza civile ed economica”. Parlan...


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