Elmenti di pedagogia, pedagogia speciale e didattica dell\'inclusione nella scuola secondaria PDF

Title Elmenti di pedagogia, pedagogia speciale e didattica dell\'inclusione nella scuola secondaria
Course Didattica e Pedagogia Speciale
Institution Università degli Studi di Parma
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Elementi di Pedagogia, Pedagogia speciale e didattica dell’inclusione nella scuolasecondariaLezione 08/11/La scuola è una funzione dei cambiamenti sociali e delle politiche ovvero dove c’è una scuola organizzata da un’istituzione (Stato) per forza di cose questa riflette le condizioni politiche e so...


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Elementi di Pedagogia, Pedagogia speciale e didattica dell’inclusione nella scuola secondaria Lezione 08/11/2021

La scuola è una funzione dei cambiamenti sociali e delle politiche ovvero dove c’è una scuola organizzata da un’istituzione (Stato) per forza di cose questa riflette le condizioni politiche e sociali del momento storico. Prima del 1962 la scuola era teoricamente per tutti ed obbligatoria per un certo numero di anni (che poi è cambiato), ma era di fatto un patrimonio di alcune classi sociali rispetto ad altre in quanto il livello di scolarizzazione delle classi sociali più fragili era ancora molto basso. Il 1962 è stato un punto di svolta per quanto riguarda la frequenza scolastica in quanto da qui in poi tutti gli italiani sono stati obbligati ad andare a scuola fino a 13-14 anni e questo ha avuto un impatto fortissimo soprattutto sul mondo del lavoro in quanto è iniziato ad essere meno normale affacciarsi al mondo del lavoro a 10-11 anni come accadeva prima di questa legge; ma soprattutto la scuola media unica riesce a garantire una maggiore inclusione sociale per cui si portava a scuola, nelle stesse classi, i figli delle persone benestanti e i figli delle persone del popolo. Per rispettare questi obbiettivi si è assistito ad una diminuzione del livello di competenze delle scuole medie che precedentemente, essendo per pochi, fornivano una migliore preparazione. Oggi quindi abbiamo una scuola dell’obbligo che riesce ad accogliere tutti e che offre una copertura di alfabetizzazione pressoché totale e abbiamo una scuola che effettivamente funziona come strumento di socializzazione. Questo tema del punto di svolta, nell’ambito scolastico, è molto importante per capire che l’oggi non è diminutivo rispetto a ieri, non è neanche questo grande progresso però è un passo in avanti. Noi siamo tutti un po' un po' pronipoti dell’Umanesimo perché abbiamo l’idea che il maestro debba essere non solo uno che insegna, ma che debba essere anche una guida e una figura esemplarità. Negli anni però si è persa l’idea dell’insegnante come moralizzatore non si fanno più i controlli di moralità sugli insegnati (che nell’800’ erano all’ordine del giorno), ma esiste lo stesso nella scuola una trasmissione implicita di cui a volte l’insegnante spesso non se ne rende conto. Questo fatto che il maestro è visto come guida si è andato un po' a perdere con il passaggio, negli anni, dal maestro unico a più maestre. 50.26 1.1 - Introduzione alla storia della scuola La scuola esiste fin dall’antichità, anche se non era organizzata nel modo in cui siamo abituati a conoscerla ai giorni nostri. Solo dopo che le conoscenze e le riflessioni sui fenomeni della natura e sull’uomo divennero considerevoli e si svilupparono con una conseguente specificazione della cultura formale in discipline distinte tra loro, fu necessario strutturare la scuola per far fronte a queste esigenze. Inoltre, col passare del tempo, la divisione del lavoro richiese competenze professionali specifiche non solo per svolgere i diversi mestieri, ma anche per le attività volte a conservare e trasmettere la cultura e le discipline stesse. L’apprendimento iniziò a richiedere un tempo specifico e programmato, per cui l’istruzione uscì dalle pareti domestiche per divenire uno studio organizzato, anche se ci vollero parecchi secoli prima che la scuola assumesse le forme istituzionali di oggi. Prima dell’Italia unita dal Rinascimento all’Ottocento 1

I processi otto e novecenteschi che hanno condotto al sistema scolastico italiano così come lo conosciamo furono resi possibili, a loro volta, da una drammatica gestazione che durò per secoli. Durante il medioevo pochissime persone erano alfabetizzate, anche fra gli aristocratici e i ricchi; chi riceveva un’istruzione, la riceveva in casa tramite istitutori privati, oppure in una delle scuole gestite a vario titolo e a tutti i livelli dalla Chiesa. Solo alcune Università, a partire dal XII secolo, erano laiche. Per quel che riguarda le istituzioni scolastiche, il mondo contemporaneo è debitore in particolar modo dell’epoca storica convenzionalmente designata come età moderna (dalla fine del Quattrocento alla Rivoluzione Francese) fermo restando che nell’età moderna e durante la prima rivoluzione industriale non esistevano sistemi scolastici organici, centralizzati e diretti a livello nazionale, e molti paesi europei cominciarono a sperimentarli solo dalla seconda metà dell’Ottocento. Alcuni nodi fondamentali della storia moderna in rapporto con l’evoluzione dei sistemi di istruzione: o Umanesimo e rinascimento (XV-XVI) Insieme al rinnovato interesse per la cultura greca e romana, gli studiosi umanisti acquistano una rinnovata consapevolezza della dignità dell’uomo in quanto essere pensante, sviluppano una fiducia ottimistica nelle sue capacità critiche (nasce la filologia, strumento di esercizio critico per eccellenza di scienziati, studiosi e intellettuali), e la convinzione che l’uomo di cultura, studioso soprattutto di filosofia, letteratura, retorica e storia, giochi un ruolo fondamentale nella politica della comunità, un ruolo di tipo pedagogico: consigliere e aiutante di governanti e principi, e anche teorico dell’educazione. Le teorie educative degli umanisti, spesso espresse in trattati sotto forma di dialogo, mirano a formare il cittadino ideale, e/o il governante ideale, interessato agli studi e soprattutto utile alla comunità; si rivolgono per lo più alle classi agiate, perché erano quelle a cui spettava ‘naturalmente’ un ruolo dirigenziale nello Stato. A cavallo fra il Quattro e il Cinquecento nascono, nei principali centri cittadini, scuole legate alla famiglia dominante o alla municipalità (esempio illustre: la Ca’ Zojosa di Vittorino da Feltre, legato ai Gonzaga di Mantova); la maggior parte degli alunni provengono dalle classi abbienti ma non mancano le eccezioni: studenti di estrazione popolare sovvenzionati dalle tasse pagate dalla comunità, o dalle rette degli studenti benestanti, che frequentano le scuole accanto agli aristocratici; sono documentanti anche casi di scuole popolari per impartire i rudimenti dell’alfabetizzazione e dell’aritmetica. Caratteristica fondamentale della pedagogia e dell’istruzione umanistiche è l’impronta laica, da non intendersi tuttavia come rifiuto delle istituzioni ecclesiastiche. o L’invenzione della stampa. Perfezionata e sdoganata in Europa da Johann Gutenberg verso la metà del Quattrocento, la stampa consente di produrre molti più libri a costi enormemente inferiori; favorisce di conseguenza la diffusione dell’oggetto-libro e della lettura. In seconda istanza, diventa lo strumento privilegiato di divulgazione della Riforma (protestante) e della Controriforma (cattolica). o La riforma protestante. Nel 1517 Lutero espone a Wittenberg le famose tesi: inizia la Riforma protestante, che punta grande enfasi sull’alfabetizzazione perché dovere di ogni cristiano è saper leggere i testi sacri in autonomia, nella propria lingua madre. Quindi per i paesi che aderiscono al protestantesimo, in tutte le sue varianti, diventa prioritario insegnare almeno a leggere a tutta la popolazione. o La Controriforma e i Gesuiti. In risposta alla politica educativa dei protestanti la Chiesa Cattolica ne adotta una sua propria, che non prevede però l’alfabetizzazione generale dei fedeli, quanto piuttosto il controllo solerte della loro vita privata e morale. Una istruzione 2

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cattolica è prevista, e di altissimo livello, per le persone destinate a guidare la politica, l’economia e le istituzioni religiose dei paesi cattolici. Di questa istruzione sono incaricati gli ordini religiosi e in particolare i Gesuiti, che fondarono Collegi fin dalla metà del Cinquecento e che fissarono i principi della loro ‘scuola’ in uno dei più celebri manifesti pedagogico-organizzativi della storia moderna: la Ratio studiorum(pubblicata per la prima volta nel 1599). Il Seicento e il metodo scientifico. Le scoperte scientifiche del Seicento e la messa a punto del metodo scientifico rilanciano, anche nei paesi cattolici, una certa propensione per il pensiero critico e una rivalutazione del sapere tecnico e persino artigianale, nonché la tendenza a criticare il principio di autorità di qualsiasi provenienza, anche religiosa. Le rielaborazioni del giusnaturalismo in chiave laica fondano il diritto di ogni uomo sulla sua natura appunto umana e razionale, e non sul suo stato di creatura di Dio. Si creano i presupposti per le rivendicazioni illuministe. L’illuminismo. Anche se non si può parlare, per l’Italia, di una cultura illuminista diffusa al pari dell’Inghilterra o della Francia, l’illuminismo agì tramite i sovrani illuminati che la governavano, e che concordavano con i philosóphesnell’affermare che, al fine di migliorare le condizioni di vita della collettività e il benessere dello stato, era indispensabile migliorare la “qualità” dei sudditi e, di conseguenza, istruirli quanto fosse necessario. L’intervento più importante nella penisola fu la Riforma di Maria Teresa d’Austria nel Lombardo-Veneto, che mirava fra le altre cose ad attivare una scuola elementare statale laica, obbligatoria e gratuita per tutti i sudditi dell’Impero; la riforma degli Asburgo diffonde e consolida in Europa la tradizione delle scuole normaliper la formazione del corpo insegnante, dirette e gestite dallo Stato. La prima metà dell’Ottocento. I governi della Restaurazione intendevano cancellare dalla cultura dei loro popoli quel che di pericoloso poteva derivare dalla memoria della Rivoluzione francese e del periodo napoleonico, e le scuole di stampo settecentescoilluminista (o napoleonico) furono spesso bersaglio di censure, limitazioni, ulteriori riforme, controlli etc, mentre ripresero lustro e vigore le scuole religiose. Il governo austriaco fu fra i meno repressivi e mantenne in sostanza la scuola primaria teresiana, mentre nel Regno delle Due Sicilie e nello Stato della Chiesa l’istruzione popolare laica subì un drastico declino. 17 marzo 1861 nasce il regno d’Italia.

L’obbligo scolastico A partire dalla seconda metà del XIX secolo, nei paesi occidentali maggiormente sviluppati ebbe inizio il processo di scolarizzazione di massa. L’incremento dell’industrializzazione, lo sviluppo di conoscenze e i processi di democratizzazione politica e sociale in atto in quel periodo allargarono gradualmente l’accesso all’istruzione a una sempre più vasta fascia di popolazione. I governi liberali, seppur preoccupati che la trasmissione della cultura potesse promuovere idee rivoluzionarie, improntarono una politica scolastica volta a diffondere l’alfabetizzazione e, come passo successivo, a innalzare l’obbligo scolastico, percepito come uno dei principali strumenti di emancipazione popolare. La legge Casati del 1859, promulgata nel Regno di Sardegna e poi fatta propria dal Regno d’Italia, rimarrà a questo proposito riferimento normativo della scuola italiana per circa un secolo. La legge Casati organizza l’istruzione elementare su 4 anni divisi in due livelli, inferiore e superiore, offerta gratuitamente dai Comuni per i ragazzi a partire dai 6 anni di età. Il livello superiore doveva essere attivato solo nei comuni oltre i 4mila abitanti e la sua frequenza era facoltativa. L’obbligo di istruzione elementare non riguardava direttamente la frequenza del livello elementare inferiore, ma recitava: “I padri, e coloro che ne fanno le veci, hanno l’obbligo di 3

procacciare, nel modo che riterranno più conveniente, ai loro figli dei due sessi in età di frequentare le scuole pubbliche elementari del grado inferiore, l’istruzione che vien data nelle medesime” (Titolo V, art. 326). Per le famiglie dei ceti medio-alti, questo garantiva la continuità delle forme di istruzione tradizionali tramite precettore e scuole private; costoro non avrebbero mai accettato di mandare i propri figli a istruirsi insieme ai figli della plebe. Alle classi popolari, però, offriva più di una giustifica per aggirare l’obbligo, dal momento che l’alternativa alla frequenza della scuola statale era lasciata nell’indeterminatezza, e che non erano previste sanzioni per gli inadempienti, ma solo richiami di tipo “morale”. Successivamente un sistema sanzionatorio venne determinato, ma le autorità erano sempre restie ad applicarlo per le condizioni di estrema povertà in cui versavano generalmente le famiglie che si rifiutavano di mandare i figli a scuola. Anche se l’istruzione era gratuita, mandare i ragazzi a scuola rappresentava un costo perché privava la famiglia di un contributo lavorativo comunque importante e spesso indispensabile.Per sconfiggere la piaga dell’analfabetismo, le misure adottate dalla legge Casati non si rivelarono sufficienti Bisogna anche considerare che, nonostante fosse chiaro a tutti che il livello minimo di istruzione era un requisito imprescindibile per far salire la reputazione dell’Italia fra le grandi potenze europee, esistevano forze politiche e sociali sfavorevoli all’obbligo scolastico: a) la Chiesa, timorosa che l’istruzione, statale e laica, sarebbe diventata necessariamente antireligiosa e anticlericale; b) i grandi proprietari terrieri, preoccupati che l’incremento dell’istruzione potesse danneggiare il sistema consolidato su cui si reggeva l’economia agraria, in particolare, ma non solo, quella latifondista dell’ex Regno delle Due Sicilie. Nel 1876 però con l’avvento al Governo di Depretis emerse una forte attenzione per la Pubblica Istruzione, e si cercò di promuovere una reale obbligatorietà e gratuità della scuola elementare. Il 15 luglio 1877 la legge Coppino aumentava di un anno l’obbligo elementare, dai 6 ai 9 anni di età, e rendeva il biennio obbligatorio aconfessionale. I genitori che non mandavano i figli a scuola erano dapprima richiamati dal Sindaco (azione morale), e in caso avessero perseverato erano soggetti a una pena pecuniaria fino a 10 lire (somma che in ogni caso, spesso, la famiglia non possedeva) o a sanzioni come il ritiro del passaporto (che poco interessava a persone dalla limitatissima mobilità) o del porto d’armi (forse la misura più invisa ad un padre di famiglia del tempo). Alla legge Coppino seguì un Regolamento con precise norme esecutive, che però apriva ampi varchi di elusione, perché esonerava dall’obbligo i cittadini dei Comuni dove le scuole non potevano essere aperte per insufficienza di scolari o per mancanza di fondi (come le famiglie che li componevano e che dovevano in teoria pagare le tasse, anche i Comuni erano poverissimi). Si veniva esentati anche se l’abitazione distava oltre 2,5 km dalla scuola, o se mancavano strade facilmente percorribili, nonché se si era in grado di dimostrare di trovarsi in uno stato di povertà assoluta. La legge risultava pertanto importante dal punto di vista del principio, ma non si avvicinava nemmeno a risolvere l’inadempimento dell’obbligo scolastico. La sua necessità non convinceva i liberali, che temevano una eccessiva ingerenza dello Stato in questioni che tradizionalmente competevano ai privati; e trovava nettamente contrarie le forze sociali conservatrici già menzionate, che chiesero addirittura l’abolizione della scuola elementare per evitare di diffondere tra i ceti popolari idee nuove, cioè pericolose (idee di mobilità sociale, dissenso politico e religioso, socialismo). A tal proposito il ministro Guido Baccelli nel 1894 affermò che la scuola doveva “istruire il popolo quanto basta, educarlo più che si può”. Una stagione di riforme scolastiche incisive si aprì con l’inizio del Novecento. Nel 1904 la legge Orlando prolungò l’obbligo scolastico fino a 12 anni di età, estendendolo ad un periodo di 6 anni e dando nuovo slancio alla lotta all’analfabetismo nelle campagne. La scuola elementare fu ridotta 4

da 5 a 4 anni, dopo di che si offrivano due alternative: a) si poteva accedere alla scuola secondaria previo superamento di un esame, o b) si frequentava il “corso popolare”. Da un punto di vista pratico e dei risultati il “corso popolare” fu un fallimento, in quanto spesso l’obbligo teorico di frequenza non poteva essere rispettato per mancanza di strutture: il “corso popolare” doveva essere istituito solo nei Comuni con più di 4000 abitanti, mentre gli altri non erano tenuti a organizzarlo. Verrà soppresso nel 1923.Nel 1911 la legge Daneo-Credaro trasferì per la prima volta la gestione di parte della scuola elementare dalla responsabilità, anche economica, dei Comuni a quella dello Stato, con l’esclusione dei Comuni capoluoghi di provincia e di quelli dove il tasso di analfabetismo non superava il 25%. Il processo fu graduale e si completò nel 1933. La legge interveniva pesantemente sulla gestione amministrativa ed edilizia, puntando a migliorare anche lo stato materiale delle infrastrutture, sempre gravemente carente. Al termine della Prima guerra mondiale il ministro Agostino Berenini propose di innalzare l’obbligo al diciottesimo anno di età, ma senza esito. L’Italia entrò nella Società delle Nazioni, e secondo gli accordi presi dal governo italiano a Washington l’obbligo fu comunque elevato fino ai 14 anni, due in più rispetto a prima. Tuttavia, anche in questo caso l’innalzamento rimaneva teorico, in quanto l’esame di licenza elementare era molto difficile da superare per chi proveniva dai ceti più bassi. L’alternativa era frequentare una scuola complementare, di scarso valore formativo, oppure ripetere l’ultima classe fino al quattordicesimo anno di età. Con l’avvento del fascismo e la Riforma Gentile (1922-1923), la scuola elementare torna a durare 5 anni, con l’obbligo scolastico confermato dai 6 ai 14 anni, e sanzioni da 2 a 50 lire per i genitori inadempienti. Si prevede in aggiunta un corso integrativo di avviamento professionale per quei ragazzi che non avrebbero proseguito gli studi, garantendo loro di assolvere l’obbligo scolastico. L’Italia repubblicana nel 1948, attraverso l’articolo n. 34 della Costituzione, stabilisce l’obbligo scolastico per almeno 8 anni (non era invece obbligatorio conseguire un titolo di studio), lasciando aperta la questione se l’assolvimento debba essere perseguito attraverso la creazione di una scuola media unica o per mezzo di canali differenziati. Si giunge così alla legge del 1962, che istituisce la scuola media unica per i ragazzi dagli 11 ai 14 anni e che segna un passo decisivo verso l’effettivo adempimento dell’obbligo scolastico, anche rispetto agli anni dell’immediato dopoguerra: negli anni del boom economico, il titolo rilasciato dalla scuola media costituisce un reale requisito preferenziale per l’accesso a lavori più qualificati, e sempre più famiglie desiderano garantire ai propri figli un’istruzione che migliori le loro future condizioni economiche. Per innalzare l’obbligo fino alla scuola secondaria superiore passeranno quasi altri quarant’anni, e risultò decisivo il fatto che l’Italia facesse parte dell’Unione Europea, e che l’Unione Europea fosse in primo luogo una Unione Economica: la legge Berlinguer del 1999 estese l’obbligo da otto a dieci anni, ossia dai 14 ai 16 anni di età, per adeguare la situazione italiana a quella delle principali nazioni europee (che già da tempo avevano adottato questo provvedimento) ed evitare che i giovani italiani siano penalizzati rispetto ai coetanei di altri paesi. L’innalzamento rispose alla convinzione che per lo sviluppo economico, sociale e culturale, i giovani dovessero acquisire un più elevato livello di istruzione e le competenze ritenute fondamentali per inserirsi in un mondo lavorativo profondamente mutato e “globale”. Sul finire degli anni Novanta, un gran numero di giovani italiani, dopo la scuola media, sceglieva la formazione professionale o intraprendeva direttamente un mestiere, generalmente come operaio salariato e con un basso livello di specializzazione. Il prolungamento dell’obbligo scolastico avrebbe rappresentato un deterrente per combattere la dispersione scolastica, che nella scuola secondaria superiore era molto alta, e di conseguenza un modo per far conseguire a tutti il successo formativo, rendendo effettivo allo stesso tempo il diritto all’istruzione (da notare lo slittamento espressivo: si parla meno di “obbligo scolastco” e più di “diritto allo studio”). 5

La legge Berlinguer non entrò mai in vigore, abrogata dalla legge n. 53 del 2003, nota come Riforma Moratti, che cita il princi...


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