Identità di luogo, pluralità di pratiche PDF

Title Identità di luogo, pluralità di pratiche
Author Alessia Petruzzi
Course Etnomusicologia
Institution Università degli Studi di Milano
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Summary

Esame di Etnomusicologia. Università degli Studi di Milano.
Riassunto del libro Identità di luogo, pluralità di pratiche....


Description

IDENTITA’ DI LUOGO, PLURALITA’ DI PRATICHE. COMPONENTI SONORE E MODALITA’ PARTECIPATIVE NEL CONTESTO URBANO MILANESE. Questo numero è incentrato sulle pratiche sonore e musicali che Milano crea e accoglie e vuole indagare e analizzare, da diversi punti di vista, i profili sonori di una città che negli ultimi cinquant’anni ha attraversato profonde trasformazioni. La crescita repentina e disordinata che Milano ha conosciuto nel secondo dopoguerra, ne ha messo in crisi i valori simbolici e identitari, pur non sottraendola a etichette che l’hanno eletta “capitale morale”, “capitale del miracolo economico”. All’interno di differenti contesti storici, politici, culturali e sociali, in questo volume si è cercato di isolare pratiche musicali e sonore, che nella percezione dei suoi abitanti e dei visitatori attenti, si caratterizzano per avere in comune una certa milanesità, un forte radicamento nel territorio e una significativa portata identitaria. Muovendosi tra spazi interni (teatri, chiese, sale da concerto) ed esterni (strade e piazze) e prendendo in considerazione diverse presenze sociali, i contributi proposti costituiscono un ipotetico campione sonoro diacronico (diacronia= studio che considera la lingua in prospettiva storica, individuandone i mutamenti e i modi dell’alterazione) di Milano nella volontà di problematizzare la misura in cui il paesaggio della città viene influenzato dalle persone che la vivono e in che modo esse si raccontano attraverso i suoni e la musica che producono. Periodo preso in considerazione dalla ricostruzione postbellica alla contemporaneità, settantennio in cui la città ha conosciuto un rinnovamento epocale. Gli antropologi che si sono occupati del concetto di luogo hanno coniato il termine luogo antropologico, intendendolo come uno spazio, segnato da tradizioni locali e in grado di conferire un’identità alle persone che lo vivono intensamente e che tramite esso entrano in relazione tra di loro e con il luogo stesso. Per questo anche il paesaggio è un processo culturale che coinvolge attori, prospettive e concetti in tempi e spazi specifici. La nozione di paesaggio ci è familiare nella sua configurazione visuale, ma non in quella sonora, eppure lo spazio viene spesso connotato dal punto di vista sonoro, così da creare un equilibrio tra il mondo interiore e il mondo esterno agli esseri umani. L’uso dei suoni in ambienti aperti e chiusi, può creare delimitazioni che sono marcate dal suono stesso. Attraverso i suoni, dunque, il luogo è percepito ed esso e lo spazio si rinforzano reciprocamente nella nostra percezione. PAESAGGIO SONORO (o ambiente acustico) = insieme di tutti i segnali acustici che ci circondano, percepiti come una totalità dotata di un’essenza. E’ qualificante per il nostro benessere e documentarlo permette di conservare pezzi importanti di eredità culturale. Esistono, ad oggi, due accezioni distinte del termine SOUNDSCAPE: la prima è quella classica di paesaggio sonoro (equivalente acustico del paesaggio visivo); vede nei lavori di Steven Feld risultati significativi, riguardo al rapporto dell’uomo con i suoni che lo circondano. Questo approccio è stato applicato anche a una musicologia urbana del passato: Music in medieval Burges inaugurò nel 1985 una corrente di studi mirati a ricostruire il soundscape delle città storiche, prendendo in considerazione pratiche sonore sino ad allora escluse dall’approccio storico (grida del mercato, suono delle campane) e illustrando come le attività musicali istituzionali interagissero con pratiche

popolari che si appropriavano dell’evento musicale e lo contaminavano. L’altra accezione di paesaggio sonoro, avanzata da Kay Kaufman Shelemay, declina al musicale la nozione di ethnoscape (panorama etnico), proposta dall’antropologo Appadurai nell’ambito degli studi sulla globalizzazione. Il paesaggio sonoro proposto da Shelemay comprende esclusivamente i fenomeni musicali in quanto tali. Ciò che accomuna le diverse accezioni è l’indispensabile analisi della presenza umana all’interno del paesaggio sonoro, ciò che le differenzia è il rapporto con il suono: per Shelemay è attraverso l’analisi delle performance musicali che si ricostruisce il pensiero musicale di una comunità; per Feld ogni suono prodotto o fruito dagli individui è utile per ricostruirne la cultura. L’amalgama tra diverse concezioni non riguarda solo il concetto di paesaggio sonoro, ma anche le metodologie per analizzarlo. Ricerca etnomusicologia studio della musica come espressione sociale, cioè come una performance che emerge ed è condotta da persone che agiscono in gruppi uniti da relazioni sociali e conoscenze culturali condivise. The Anthropology of Music, testo di Alan Merriam. Segna la svolta culturale in etnomusicologia: lo studioso porta l’idea secondo cui anche per l’antropologo il dato scritto, quando presente, è prezioso e non può essere sottovalutato.

APPUNTI PER UNA STORIA SOCIALE DEL LOGGIONE DELLA SCALA NEL SECONDO NOVECENTO. Nell’immaginario culturale italiano, l’opera è spesso vista come un genere intrinsecamente popolare. Roberto Leydi in un suo saggio si soffermò sulla questione: secondo un luogo comune la musica di Giuseppe Verdi e degli altri grandi operisti dell’Ottocento italiano sarebbe stata ispirata dal patrimonio culturale e musicale delle classi piè basse. Alla base di questo “mito popolare”, si annidavano interessi politici. L’idea per cui lo spirito del popolo, attraverso la musica dei grandi compositori, potesse penetrare nei cuori del pubblico sostanzialmente borghese che frequentava i teatri della penisola, faceva dell’opera uno strumento di unificazione nazionale. Anche nel secolo successivo, l’opera, passata (solo apparentemente) indenne attraverso un ventennio di fascismo, continuò a rappresentare un punto di riferimento a cui guardare con fiducia per riaffermare l’unità culturale degli italiani di ogni classe e regione (nel 1963 Moravia tornò a rimarcare il presunto legame tra opera e popolarità – definisce Verdi “il nostro Shakespeare folkloristico, plebeo, contadino, capace di esprimere nei suoi lavori un punto di vista universale”). I saggi prodotti fino ad oggi sull’argomento (mito dell’opera come genere popolare) sembrano mettere in dubbio che nel XIX secolo l’opera fosse effettivamente la musica del popolo. I teatri all’italiana infatti erano concepiti per servire una società rigidamente divisa in classi, le più basse delle quali avevano una rappresentanza scarsissima, se non addirittura nulla, all’interno di questi edifici. Di tutte le sezioni in cui si divide la gerarchia di posti di un teatro, le gallerie rappresentano il luogo che più di ogni altro è rimasto legato all’idea di una fruizione davvero popolare. Grazie ai costi relativamente bassi dei biglietti d’ingresso, i frequentatori del loggione hanno la possibilità di accedere più spesso al teatro di altre categorie di spettatori. Per contro, la scarsa visibilità del palcoscenico, sommata alla scomodità, mette a dura prova la resistenza fisica dei loggionisti e legittimano vivaci reazioni nei

confronti dello spettacolo e dei sui interpreti. I loggionisti sono anche considerati gli spettatori più appassionati ed esperti, e il loro parere viene tenuto in grande considerazione. I loggionisti furono tra i protagonisti del secondo Novecento scaligero, e rappresentano nell’immaginario comune gli ultimi depositari di una lunga tradizione di fruizione popolare della musica d’opera. Posti in piedi in paradiso. Il loggione della Scala tra mito e realtà. Al loggione della Scala, chiamato anche ‘piccionaia’ da Giuseppe Piermarini (architetto che aveva progettato il teatro nel 1778), accedeva nell’Ottocento il minuto popolo, cioè un pubblico formato da coloro che, pur non potendo accedere alle parti nobili del teatro, avevano i mezzi economici necessari per pagare il biglietto di accesso. Per quasi tutto l’Ottocento il loggione corrispose all’ultima fila di posti, ma nel 1891 anche i palchi centrali dell’ordine sottostante, furono demoliti per fare spazio ad una seconda galleria; nello stesso anno furono aboliti i posti in piedi in platea, i plachi laterali vennero demoliti nel 1907 e il teatro giunse così all’attuale conformazione. I loggionisti sono incoraggiati a sviluppare una certa concezione del teatro lirico e ad affermarla con forza, proprio a causa della loro separazione fisica dal resto del pubblico. E’ infatti solo a partire da una divisione spaziale , più che economica, che il pubblico delle gallerie può avviare una strategia di distinzione sociale dal resto degli spettatori, servendosi dell’opera come uno strumento per rivendicare la propria superiorità spirituale. Una volta occupato lo spazio delle gallerie, i loggionisti potevano ribaltare i rapporti di forza in campo, intervenendo attivamente durante lo spettacolo e decidendo dei destini di opere e interpreti. Per come veniva vissuto dagli spettatori, il loggione favoriva la nascita di amicizie e di reti di conoscenze sulla base della comune passione per la musica. Non stupisce che alcuni tra i frequentatori più assidui della gallerie iniziarono a riunirsi in forme associative, proprio allo scopo di rafforzare i propri legami anche al di fuori del teatro (esempi di associazioni: la Camerata Ambrosiana,Associazione Loggionisti Scala).

LUOGHI ARMENI, SPAZI MILANESI In questo articolo si analizza un evento specifico osservato presso la comunità armena di Milano: Vartanants, una ricorrenza annuale che celebra la difesa, da parte degli armeni, della religione cristiana contro i persiani ed il paganesimo. Riferendosi a questo evento si cerca di mettere in evidenza come la musica abbia la capacità di superare i limiti di spazio e tempo, creando luoghi immaginati dove ribadire l’armenità. Le persone nelle società di tutto il mondo usano la musica per creare ed esprimere la loro vita emotiva interiore, per attraversare l’abisso tra sé e il divino, per corteggiare gli amanti, per ispirare i movimenti politici di massa, per aiutare i loro bambini ad addormentarsi; la musica può articolare la nostra conoscenza di altre persone, luoghi e cose, e noi stessi in relazione a essi. La musica è anche socialmente significativa perché fornisce mezzi attraverso i quali le persone possono costruire le identità e i luoghi, e i confini che li separano; ha la capacità di informare il nostro senso del ‘luogo’. Luogo si riferirebbe all’ambiente fisico di un’attività sociale situata geograficamente, ma è necessaria una separazione dello ‘spazio’ (space) dal ‘luogo’(place). I concetti di luogo, confine e identità continuano a trasformarsi e la loro forma viene continuamente ridefinita a seconda dei diversi contesti e situazioni. Questo continuo movimento

richiede un processo di riimpianto nel quale la musica ha un ruolo fondamentale: essa evoca e organizza le memorie collettive e le esperienze relative al luogo con un’intensità, una forza e una semplicità inesistenti in altre attività sociali. I luoghi costruiti attraverso la musica coinvolgono nozioni di differenza e di confine sociale; la musica può quindi creare confini immaginati e un luogo immaginato se è utilizzata in particolari momenti, come ad esempio un evento commemorativo in una comunità diasporica. Gli armeni sono un popolo originario del Caucaso e dell’Altopiano armeno e per secoli hanno vissuto nei territori dell’attuale Turchia; le loro origini risalgono almeno al terzo millennio prima di Cristo. Comunemente si dice che per gli armeni i capisaldi dell’identità sono tre: l’alfabeto inventato da Mesrop Mashtots (monaco, teologo e linguista), la religione (Cristiana Apostolica Armena) e la loro storia, segnata dall’evento del genocidio del 1915 perpetrato dal Governo dei Giovani Turchi. In seguito al genocidio, grandi masse di armeni sis sono spostate verso l’Europa e gli Stati Uniti, creando un’enorme diaspora; diaspora significa un trauma collettivo , esilio, sogno di una patria nella quale non si può vivere. Le formazioni diasporiche non sono entità oggettive ma unità identitarie costruite, basate su segni e discorsi di somiglianza e unità. La comunità armena di Milano si compone di circa quattrocento persone, è formata dagli anziani arrivati in Italia in seguito al genocidio; vi sono poi i loro figli e nipoti, questi ultimi nati e cresciuti all’italiana e per questo poco partecipativi alla vita comunitaria. Figurano inoltre giovani senza famiglia al seguito, arrivati in questi ultimi anni dalla Repubblica d’Armenia. I pochi armeni presenti in Italia prima e dopo il genocidio arrivarono attraverso percorsi individuali legati a ragioni di studio o affari; furono arrivi ‘protetti’, per certi versi programmati e comunque con dei riferimenti sul territorio già conosciuti in anticipo. Nel 1946 fu istituita l’Unione Culturale Armena d’Italia, gli incontri erano momenti in cui si leggevano i grandi della letteratura armena, oppure si celebravano le festività armene e si faceva musica. Agli inizi degli anni Cinquanta, la comunità pensò ad una ‘casa’ per tutti gli armeni, situata in Piazza Velasca: il desiderio era quello di avere un luogo dove potersi riunire, per conservare le tradizioni e trasmetterle alle nuove generazioni. Fino alla costruzione della ‘casa’ , gli armeni hanno utilizzato diversi spazi milanesi, connotandoli con l’armenità, spesso utilizzando la musica come vettore preferito negli incontri dove era necessario ribadire l’unità e la coesione della comunità. La comunità armena di Milano, oggi, è difficilmente riconoscibile nel tessuto della città: l’armeno, portato lontano dalla sua patria originaria, è perfettamente integrato nella società che ha accolto i suoi padri. Un evento a cadenza annuale , esemplare per comprendere il ruolo della musica come vettore identitario e come costruttore di luoghi armeni ideali nella comunità armena di Milano, è una commemorazione storica, Vartanants. Questa commemora la battaglia contro i persiani per la difesa della libertà di religione. Tutti i gruppi elaborano una memoria sociale, un fondo di ricordi, e tali ricordi sono sempre situati in relazione ad uno spazio e ad un tempo: in questo caso il luogo è Avarayr e l’anno è il 451 d.C., il ricordo è la battaglia guidata dal generale Vartan Mamigonian. La musica è utilizzata dagli armeni in situazioni specifiche al fine di erigere barriere, così da mantenere distinzioni tra sé e gli altri.

Vartanants: inizialmente si ascolta un’introduzione del presidente della comunità, successivamente si svolge il concerto e infine vi è un ricevimento con cibi e dolci armeni. La lettura storica che l’armeno ha di Vartanants è il fatto che “ogni giorno è Vartanants”e che ogni giorno quindi bisogna lottare per non perdersi. Un brano in particolare (Lrets Amber) viene eseguito ogni anno; è sempre eseguito dalla stessa cantante, Ani Balian. Il testo è tratto da una poesia armena della seconda metà dell’Ottocento ed è fortemente legato alla commemorazione della battaglia. Nei testi dei brani armeni , si richiama a elementi della natura e del cielo per guardare lontano e ricordare luoghi ed eventi passati. La composizione musicale del brano presume la ripetizione di alcune parole del testo su linea melodica diversa, quali per esempio il termine che si riferisce al concetto di nascosto o tolto con forza.

MILANO KLANDESTINA: SENSO DEI LUOGHI E FORME DI SOCIALITA’ DI UNA CITTA’ CHE DANZA “Oggi Milano è una città che non inventa più nulla”, con questa affermazione gli anziani ballerini di liscio ambrosiano intendevano marcare le profonde differenze tra la ‘Milano di una volta’, quella del secondo dopoguerra, una città vivace sotto il profilo della produzione musicale e affamata di occasioni per ballare, e ma metropoli indaffarata e consumistica di oggi, incapace dal loro punto di vista di dar vita a fenomeni artistici originali. L’incontro con Mazurka Klandestina haofferto la possibilità di rivedere e problematizzare questo pensiero. L’idea di Mazurka Klandestina nasce a Milano nel 2008, quando un piccolo gruppo di ballerini appassionati di danza popolari francesi, decide per la prima volta di darsi appuntamento in piazza Affari per ballare tutta la notte facendo circolare la notizia attraverso una mailing list. Tra tutte le danze presenti nel repertorio tradizionale delle danze folk, i ballerini scelgono di dedicarsi principalmente alla mazurka (danza che sembra sfuggire agli schemi dati, permettendo di ricorrere più facilmente all’improvvisazione). Grazie anche ai social network, l’idea inizia a diffondersi rapidamente in altri contesti urbani dando vita ad una rete attualmente estesa su tutto il territorio nazionale: strade e piazze normalmente deputate ad altri usi si trasformano per una notte in vere e proprie piste da ballo. Il nome Mazurka Klandestina fa riferimento da un lato al genere di danza praticato dalla comunità, dall’altro all’occupazione ‘clandestina’ degli spazi pubblici, che risulta essere tale per il fatto che non vengono richiesti alle autorità competenti i necessari permessi per ritrovarsi in un luogo pubblico. L’autrice del saggio dice di essere entrata a far parte di Mazurka Klandestina innanzitutto come danzatrice, ha appreso l’habitus clandestino. Due fasi della ricerca: frequentazione intensiva del terreno con iniziazione all’habitus clandestino e rielaborazione teorica della ricerca. Il focus del lavoro è rappresentato dal contesto milanese e dal suo gruppo di ballerini ( il gruppo più numeroso, più dinamico tra tutti i gruppi che fanno capo a MK). Le persone che partecipano a una MK non si limitano a rivendicare il proprio diritto di fruire degli spazi pubblici portando in piazza il proprio corpo, ma lo fanno in modo espressivo, sensuale, spesso oltrepassando la soglia della ‘distanza intima’. Certo, tutte le danze di coppia implicano un contatto serrato tra partner, ma la differenza è che, mentre normalmente questo avviene in uno spazio ‘dedicato’, nel contesto di MK l’intensità intima del ballo si consuma in un luogo pubblico. Un’altra forma di riappropriazione messa in atto da MK riguarda il senso da attribuire a ciò che viene comunemente definito

tradizione. Ballare in piazza non è certo una novità: nei contesti rurali dove le cosiddette danze popolari sono nate era proprio la piazza principale del paese a radunare la comunità in occasione delle feste; da questo punto di vista, MK non fa altro che riportare il folk nel suo contesto più naturale di esecuzione e fruizione. Tuttavia, trasportare il popolare in città significa al tempo stesso trasformarlo in qualcosa di diverso:musica registrata e casse amplificate per far fronte all’assenza di musicisti o per riuscire a riempire spazi più ampi, ma soprattutto un nuovo modo di interpretare il repertorio musicale e coreutico popolare. Uno stile più improvvisato , meno tecnico e non sempre ossequioso nei confronti dei passi codificati, ma che ha portato una ventata di entusiasmo e freschezza nell’ambiente un po’ elitario del folk, avvicinando numerosi giovani a questo genere di danze. Una prima caratteristica che balza all’occhio della riappropriazione clandestina è la ‘temporaneità’; uno strumento utile per chiarire questo aspetto è un concetto analitico, si tratta dell’idea di ‘Zona Temporaneamente Autonoma’ formulata dal filosofo anarchico conosciuto sotto lo pseudonimo di Hakim Bey. La Zona Temporaneamente Autonoma è come una sommossa che non si scontri direttamente con lo Stato, un’operazione di guerriglia che libera un’area e poi si dissolve per riformarsi in un altro dove, in altro tempo, prima che lo Stato la possa schiacciare. Nel contesto di MK la scelta di utilizzare gli spazi pubblici si accompagna all’idea di dar vita a opportunità ricreative diverse da quelle organizzate dagli ‘aspiranti manager del nostro tempo libero’. A differenza di ciò che accade in altre situazioni in cui si balla un repertorio simile, ma in uno spazio privato, nelle piazze clandestine chiunque può accedere gratuitamente, in qualsiasi momento e per tutto il tempo che desidera; dal momento che non esistono veri e propri vertici all’interno della comunità, l’organizzazione degli eventi è di fatto aperta a tutti e lasciata alla libera iniziativa di chi decide di assumersi questo compito. Gli eventi MK hanno inizio intorno alle undici di sera e terminano la mattina del giorno seguente, lasciando il luogo scelto per l’occa...


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