Le Fiabe, Marazzini riassunto PDF

Title Le Fiabe, Marazzini riassunto
Author Smoker 15
Course Antropologia culturale
Institution Università degli Studi di Torino
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Riassunto dettagliato del libro "Le fiabe" di Claudio Marazzini...


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LE FIABE Che cos’è una fiaba 1.1 Origini e scoperta delle fiabe Le fiabe presentano una contraddittorietà: i libri che le raccolgono si riferiscono generalmente a uno spazio geografico ristretto (paese, provincia, regione), eppure, appena si cerca di interpretare la fiaba e si istituiscono i primi confronti, l’orizzonte si amplia. Presto si scopre che il medesimo racconto esiste a migliaia di chilometri di distanza, a volte con una corrispondenza nella letteratura e nel mito. La fiaba, dunque, ci offre un “piccolo” che è in realtà “grande”. Le domande sono: da dove vengono le fiabe? Come mai lo stesso racconto si ritrova in posti lontani tra loro, in località apparentemente prive di rapporti storici? Ci sono varie spiegazioni possibili 1) data la presenza di numerose fiabe analoghe o identiche, si potrebbe pensare a un’origine comune, a un’”archi-favola” dalla quale siano derivate le altre 2) il patrimonio originale di racconti, tuttavia, è stato spiegato più spesso ricorrendo alla tradizione storica di gruppi etnici 3) si potrebbe anche ipotizzare l’invenzione casuale di storie analoghe o uguali, in luoghi diversi, in base a un’identica capacità di invenzione e di combinazione propria degli uomini in quanto tali. Per la verità, già alla fine dell’Ottocento Joseph Bédier, nel suo libro dei Fabliaux, si faceva beffe di questa teoria delle “coincidenze accidentali”, per cui uno stesso racconto sarebbe stato inventato e reinventato molte volte in luoghi diversi. Un altro studioso della fine dell’Ottocento, Edward Clodd, osservava che “dove le coincidenze fra le novelle popolari s’estendono a minuti particolari, si può ammettere una origine comune, mentre dove v’è solo una idea simile come motivo principale, senza corrispondenza nei particolari, è probabile l’origine indipendente”. Le teorie psicoanalitiche, infine, hanno cercato di spiegare l’origine della fiaba a partire dal sogno, dall’inconscio. Queste spiegazioni prescindono dalla reale storicità dei racconti e ne propongono una chiave di lettura generale, spesso generica ed elusiva. Tuttavia, alcune forme di analisi psicoanalitica, ispirate a Jung, riportano l’origine delle fiabe agli archetipi psicologici collettivi. Ricapitolando, è possibile supporre che: 1) l’origine comune delle fiabe sia dovuta a reale trasmissione storica di racconti da un unico popolo o da un unico centro geografico 2) che l’origine sia poligenetica, fondata su tradizioni o caratteri psicologici comuni a tutta l’umanità, o derivata dall’emergere di identiche funzioni proprie dell’inconscio 3) che la poligenesi sia dovuta semplicemente al caso. Tutte le teorie contengono probabilmente una parte di verità, ma non vi è una teoria prevalente. Inoltre, al problema dell’origine della fiaba si mescolano altre questioni, quali l’origine delle lingue e dei popoli, la creazione dei miti, il fondamento della capacità di narrare e inventare storie fantastiche attribuendo loro significati profondi, simbolici, religiosi. Questa capacità è connaturata con l’uomo. Le fiabe sono state spesso utilizzate, immesse in un contesto diverso, rielaborate nella letteratura, ma l’interesse per esse nacque solo nel XIX secolo, nel periodo romantico, soprattutto ad opera di Jacob e Wilhelm Grimm che pubblicarono la raccolta Kinder und Hausmarchen, pietra miliare nella storia degli studi sul folclore. L’opera ebbe molta fortuna. In edizioni successive, I Grimm fecero interventi sullo stile e combinarono le varianti, in modo da andare oltre il testo che avevano avuto da un singolo narratore popolare. Essi cercarono di ricostruire fiabe per quanto possibile perfette. Il libro dei Grimm rappresentò una compiuta elaborazione d’arte, pur basato sulla reale conoscenza del popolo. I due fratelli si erano dedicati a ricerche relative all’antica letteratura germanica e alla raccolta di testi che, affidati alla tradizione orale, costituivano la prosecuzione dell’antica letteratura nazionale. Il loro progetto era lo studio di tutto quanto entrasse a far parte del mondo germanico. Le ricerche sulla fiaba, nella prima metà dell’Ottocento, si collegano quindi alla rivalutazione della nazione germanica e delle sue basi popolari. (filologia-linguistica comparata: spiegazione fiabe popolari) Grimm affrontò anche il problema dell’origine delle fiabe tedesche: egli non negava la possibilità della poligenesi, o che un racconto potesse essere passato da un popolo all’altro in un modo che può essere paragonato al prestito linguistico, ma allo stesso tempo non riteneva che questo canale di diffusione fosse stato determinante, nella maggioranza dei casi. La spiegazione della comunanza secondo Grimm era data da una “proprietà comune” dei popoli indoeuropei. Grimm aveva osservato la connessione tra le fiabe

germaniche, indiane, persiane, olandesi, inglesi ecc..Tale somiglianza si estendeva anche alle nazioni romanze. L’orientalista Benfey, autore della più antica silloge di racconti indiani, riconduceva l’origine comune di tutte le fiabe ad un’origine indiana, proponendo quindi una teoria monogenetica. Secondo Bnfey, era sufficiente ripercorrere la storia di ogni racconto fiabesco per arrivare all’India 8es. racconto popolare=versione cinquecentesca=versione medievale dei fablieaux francesi=testo ebraico=testo arabo=testo persiano=testo sanscrito). 1.2 Fiaba e mitologia comparata L’interesse per la cultura dell’India diede luogo a interpretazioni radicali quando si sviluppò la “mitologia comparata”. Ne furono esponenti il tedesco Max Muller e l’italiano De Gubernatis, il quale pubblicò l’opera Zoological Mythology a Londra nel 1872. I teorici della “mitologia comparata” portarono alle estreme conseguenze la tesi relativa all’eredità mitica dell’antico patrimonio indoeuropeo. Secondo tali studiosi, al momento della dispersione delle antiche tribù ariane, tale patrimonio era già formato tanto da divenire fonte di miti e racconti comuni a tutti i popoli appartenenti a questa categoria. De Gubernatis, in particolare, guardava al Rigveda indiano come all’archetipo di una miriade di racconti europei mitici o fiabeschi la cui spiegazione, però, veniva ricondotta a elementi troppo generali. Nel 1883, De Gubernatis pubblico Storia delle novelline popolari, nella quale un gran numero di fiabe popolari italiane non solo venivano collegate al Rigveda, ma soprattutto tutte le trame erano ricondotte all’origine comune dei miti solari indiani. Per esempio la storia di Cenerentola, secondo De Gubernatis, avrebbe significato il passaggio dall’aurora, splendente di luce, al tramonto, in cui il sole si oscura. Aurora e tramonto sono dunque due immagini femminili, l’una opposta dell’altra, come in un “doppio”, una coppia di opposti. L’aurora cammina davanti al sole e il sole la insegue, come il principe insegue Cenerentola, che fugge sul carro. La spiegazione appare un po’ generica e tale interpretazione veniva ripetuta per una serie troppo vasta di racconti. Va tuttavia riconosciuto a De Gubernatis il merito di aver collegato lo studio della fiaba a quello del mito, e di aver collegato tra loro racconti di aree molto lontane (miti greci, fiabe italiane, russe), permettendo collegamenti affascinanti. Il metodo della mitologia comparata consisteva nell’accostare narrazioni diverse e lontane sulla base di singole analogie, cercando al tempo stesso il significato delle forme archetipe, ricondotte a pochi elementi universali. Nella mitologia vedica De Gubernatis ritrovava una cosmogonia secondo la quale, al principio del mondo, tutto era acqua. Dalle acque era nato un guscio d’oro, il “signore della generazione”, poi appellativo del dio Brahma. L’uovo d’oro è considerato simbolo del bene e della luce, come un sole aureo. De Gubernatis continuava affermando che l’uomo collocò in Oriente, dove nasce il sole e dove comincia la vita, il mitico giardino delle Esperidi.. da qui, nei miti ellenici, Ercole porta via le mele d’oro, su richiesta del re Euristeo. De Gubernatis mirava a mostrare la presenza nei miti greco-latini della maggior parte dei motivi che formano tuttora il fondo delle novelle popolari italiane. Fiaba e mito, insomma, venivano collegati e ricondotti a una matrice comune. Il ricorso alla mitologia vedica è stato successivamente ridimensionato. L’orientalismo, tuttavia, rimase in parte attivo, tanto che Propp, quando interpretò il motivo del “cavalofuoco” o “cavallo di fuoco” fece ricorso al confronto con il Rigveda, oltre che con lo sciamanesimo e con i miti. 1.3 Radici storiche e antropologiche Il metodo per svelare ciò che si cela dietro le strutture narrative della fiaba sembra consistere nell’individuazione di temi e motivi presenti nel mito o nelle antiche letterature. Propp elaborò un procedimento diverso, illustrato in Le radici storiche dei racconti di fate (di magia) (1946-1977), dopo aver anche pubblicato La morfologia della fiaba. La premessa alle Radici storiche invoca certi principi del marxismo. Certe affermazioni di Marx vengono citate come se fossero necessarie per intendere la genesi e le caratteristiche del racconto di magia. Egli affermava di interpretare la fiaba sulla base delle forme di produzione” che essa riflette. La fiaba riporta infatti a un mondo arcaico in cui l’agricoltura svolgeva un ruolo trascurabile, mentre era importante la caccia: poiché Propp aveva tenuto conto di questo contesto economico, dichiarava di aver seguito i principi interpretativi del marxismo. Anche Propp cercava le ragioni genetiche della fiaba in un tempo remoto, sondando i rapporti con i miti e i riti magici. Tuttavia, a differenza

dei suoi predecessori, egli operò all’interno di una visione unitaria, storica e al tempo stesso “strutturale”. Per esempio, all’inizio della fiaba si incontrano spesso varie forme di divieto rivolte ai figli (es. non devono uscire di casa), come se su di loro incombesse un pericolo. Tale elemento viene ricollegato da Propp ai tabù e ai divieti imposti nelle società primitive ai membri delle famiglie reali. Altri passaggi tipi della fiaba vengono ricollegati da Propp alla memoria dei riti di iniziazione delle società tribali: per es. l’abbandono dei bambini nel bosco o il rapimento. Analogamente, il cavallo che compare nelle fiabe, associato con qualche traccia che riporta al motivo del fuoco, viene interpretato come l’intermediario tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Gli animali magici della fiaba sono appunto animali totemici. L’aiuto che essi forniscono all’eroe deve essere ricondotto anch’esso ad antichissimi riti di iniziazione. Ciò vale anche per il drago che, secondo Propp, deriva dai riti di iniziazione, nei quali però non c’era questo tipo di animale fantastico, la cui forma è moderna, anche se nei riti esisteva l’azione dell’”inghiottimento”. Esso non sarebbe altro che una commistione di animali diversi, operata successivamente. La negatività del drago si sviluppò in una fase più recente, quando i riti non esistevano più e si erano perse le loro motivazioni, Insomma, la fiaba, secondo l’indagine di Propp, risulta essere il ricordo di antiche tradizioni proprie di una società di cacciatori totemici, i cui elementi si sono trasformati e hanno perso le motivazioni originarie, e su cui si sono stratificati significati più moderni. Si prenda la fine della fiaba, con le nozze tra l’eroe e la principessa, che si accompagnano alla trasformazione del protagonista in re. Propp interpreta il passaggio come residuo della società in cui l’eredità del potere passava per via femminile. Il “falso eroe” della fiaba, antagonista dell’eroe vero, sarebbe una sorta di capro espiatorio che assume le funzioni proprie del vecchio re, al quale, nel rituale originario, toccava morire o essere detronizzato. Propp ha saputo collegare le prove atte a mostrare che la fiaba è nata da antiche credenze. Indagarla significa guardare alle tracce del nostro passato più antico: anzi la fiaba è una delle poche possibilità offerte all’uomo moderno per cogliere ancora vivi e produttivi, seppure profondamente modificati e mascherati, questi frammenti di preistoria. Anche altre interpretazioni, simili a quella di Propp, sono state importanti: fin dalla seconda metà dell’Ottocento la scuola antropologica inglese (Taylor, Lang) mise in relazione le culture primitive e il contenuto magico-rituale della fiaba. Clodd, in un saggio sulla fiaba inglese di Tom-Tit-Tot (il cui motivo dominante è l’indovinello del nome segreto del misterioso aiutante), tentò una spiegazione che si basava sui rituali primitivi e sui tabù legati al nominare qualcuno o qualche cosa. Bédier, nel libro sui Fabliaux, sootolinea come diversi studiosi si erano opposti alla scuola “mitografica” proprio in nome di una teoria “antropologica”, secondo la quale i miti rappresentavano il residuo di antiche credenze che riflettevano esattamente gli usi, i riti, il pensiero primitivo. L’antropologia, dunque, proponeva già allora le proprie risorse per offrire la chiave interpretativa del mito e per spiegare la capacità umana di raccontare. 1.4 Uno spazio senza confini Le teorie ottocentesche che vedevano nell’India e nella tradizione indoeuropea l’origine delle fiabe ebbero certo molti limiti, ma determinarono l’allargamento dell’orizzonte d’indagine. Nacque l’esigenza di confrontare diverse versioni della stessa fiaba raccolte in luoghi lontani tra loro. questo passaggio era necessario per individuare quali temi e motivi fossero sopravvissuti. Nella seconda metà dell’Ottocento si sviluppò il comparativismo applicato alle fiabe popolari. La capacità comparativa si andò estendendo con grandi risultati tra gli studiosi del XIX secolo. Importante fu Cosquin e i suoi Racconti popolari di Lorena. Uscirono anche studi volti ad approfondire singoli cicli di fiabe, come ad esempio su Cenerentola e sulla leggenda di Perseo. Le ricerche sula fiaba avevano assunto di fatto una dimensione sovranazionale. La spinta più forte in tale senso venne dalla Finlandia, con la cosiddetta “scuola finnica”. In Finlandia si era sviluppato lo studio del Kalevala, epopea nazionale, ed era stato messo a punto un metodo per ricostruire la storia di ciascuno dei canti che o compongono per verificarne la distribuzione geografica, secondo un metodo “storico-geografico”. Kronh applicò tale metodo alle fiabe e si convinse che il loro esame doveva procedere tenendo presente un universo addirittura mondiale, non soltanto europeo o indoeuropeo. Suo discepolo fu Aarne, a cui si deve un catalogo dei tipi della fiaba destinato a grande fortuna, tanto da essere lo strumento principale a cui oggi si ricorre nella classificazione. Quanto alla definizione di “tipo”, viene considerata tale una fiaba con un’esistenza indipendente, riconoscibile per la presenza di un certo numero di motivi in

combinazione relativamente fissa. Il “motivo”, invece, è un piccolo elemento del racconto, costituito da un personaggio, un animale, un oggetto magico, un particolare episodio. Lo scopo degli studi di Khron e di Aarne era quello di allestire un catalogo di tipi che fosse base sicura per una classificazione generale delle fiabe. La classificazione che ne è risultata propone tre gruppi principali: 1)fiabe di animali 2)fiabe “normali” 3) fiabe umoristiche. Le fiabe di animali si classificano a seconda dell’animale che vi compare. Quelle normali si dividono in fiabe magiche o meravigliose, religiose, romantiche e infine quelle che parlano di un “orco stupido”. Le fiabe umoristiche consistono in facezie e aneddoti. Nel 1928 fu pubblicato The Types of the Folk-tale. A Classification and Bibliography. Si tratta di uno strumento di utilità eccezionale, pur se non sono mancate critiche alla classificazione adottata, poiché, qualcuno ha ritenuto che la classificazione di Aarne-Thompson (che partecipò al progetto dopo la morte di Aarne) fosse troppo empirica e soggettiva, priva di rigore analitico. 1.5 La classificazione di tipi e motivi. Esempio di Hansel e Gretel dei fratelli Grimm (tipo 327°). Scorrendo l’elenco salta all’occhio l’ampia distribuzione geografica del tipo, presente nell’Europa del Nord, in Germania, in Spagna, in Italia e poi in luoghi lontani come l’Indonesia e l’America, dove probabilmente è arrivato con la colonizzazione europea. Tra il 1932 e il 1936, Thompson pubblicò il Motif-Idex of Folk Literature, l’indice dei “motivi” della fiaba. La classificazione dei motivi, anch’essa pratica ed empirica, ha lo scopo di ordinare il materiale narrativo in modo da facilitarne l’identificazione, il reperimento e il confronto, mediante lettere e numeri. Ricorda il metodo usato nelle biblioteche. Ad esempio, sotto la lettera A sono stati posti i motivi riguardanti la creazione e la natura dell’universo. 1.6 Fiabe e linguistica Il rapporto tra le discipline linguistiche e lo studio scientifico delle fiabe è sempre stato molto stretto. Già la prima spiegazione complessiva dell’origine e provenienza delle fiabe fu elaborata alla luce della linguistica grazie ai fratelli Grimm. Nella seconda metà dell’Ottocento, Angelo De Gubernatis aveva sostenuto che le analogie tra alcune novelline piemontesi e bretoni andavano spiegate con la comunanza di tradizioni celtiche tra il Piemonte e la Bretagna, rifacendosi alla tesi di Costantino Nigra sui canti popolari del Piemonte, di tipo epico-lirico-corale, ben diversi dalle forme di canto in uso in altre zone d’Italia. La specificità dei canti del Piemonte era stata giustificata da Nigra invocando il “sostrato celtico”, cioè riesumando l’eredità etnicolinguistica di un periodo anteriore alla conquista dei Romani. La trasmissione e trasformazione delle fiabe, insomma, poteva richiamare per analogia i meccanismi di trasmissione della lingua. Il saggio Il folclore come forma di creazione autonoma di Peter Bogatyrev e Roman Jakobson è il caso più noto e attuale di interpretazione “linguistica” del racconto popolare (e della tradizione folclorica), sulla base del seguente principio: le fiabe (e il folclore in genere) si trasformano e vivono in maniera simile alla lingua. I due si erano rifatti alla distinzione di de Saussure tra langue e parole: la langue è la lingua intesa come istituto, l’insieme delle norme e delle convenzioni generalmente accettate; la parole, invece, è la lingua individuale, com’è usata da ogni singolo parlante: in essa sono parte sostanziale le preferenze personali e le innovazioni; per contro, nella langue gli elementi individuali non contano. La distinzione tra langue e parole era usata dai due studiosi appunto per definire la specifica natura del fenomeno folclorico, la quale finiva per identificarsi nella trasmissione e nel riuso: il momento determinante per la creazione del patrimonio folclorico sembrava, quindi, quello dell’accettazione da parte della comunità, la quale poteva rifiutare o accettare quanto le veniva proposto da un singolo appartenente. Poiché la trasmissione del prodotto folclorico, canzone o fiaba, si realizza attraverso la catena dell’oralità, l’eventuale rifiuto dell’innovazione, secondo i due autori, equivaleva alla condanna all’oblio, dato che l’oralità non permette recupero nelle fasi diacroniche successive (a differenza di quanto accade nella cultura letteraria colta, basata sulla trasmissione di testi scritti). Il folclore, come la lingua, risultava caratterizzato dalle leggi dell’oralità, governato da regole che lo rendevano omologo rispetto alla lingua. Anche nella lingua le innovazioni della parole, introdotte da singoli parlanti, diventano sistema, cioè langue, solamente se e quando sono accolte dalla collettività nel suo complesso; altrimenti si perdono, come un motivo smarrito o una fiaba dimenticata da tutti. 1.7 Il pubblico: adulti o bambini?

Nella società moderna industriale e postindustriale la fiaba è diventata un genere dedicato in maniera specifica ai bambini. Si tratta, però, di una mutazione profonda. La fiaba oggi non è più vitale come era un tempo nella società arcaica contadina, quando trionfava l’oralità. Insieme ad altre forme di racconto, veniva allora utilizzata nei momenti di riunione caratterizzati da interscambio sociale e generazionale, per cui la fiaba non era destinata solamente ai più giovani. Anche le raccolte letterarie del passato, come quella settecentesca di Giambattista Basile, il Pentamerone, lo dimostrano. Già Benedetto Croce, presentando nel 1924 la traduzione italiana della raccolta del Basie, spiegava che si ingannava chi credeva trattarsi di ope...


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